L’eventuale avventura italiana in Libia si presenterebbe nelle peggiori condizioni. Prima di tutto con “l’armiamoci e partite” delle altre quattro potenze occidentali riunite ieri a Hannover. Il vertice Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna insieme all’Italia ha deciso di mettere la Libia in cima all’agenda per la lotta contro Daesh e il traffico di esseri umani. Ma subito dopo ciascun Paese si è sfilato dall’impegno in prima linea. Il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian ha annunciato che Parigi “è pronta a garantire la sicurezza marittima”.
Sul Corriere della Sera ieri è stata anticipata la notizia che 900 soldati italiani sono pronti per partire per il Paese nordafricano, appena sarà perfezionata la procedura istituzionale. La Repubblica, invece, ha avanzato altri numeri ridimensionati a 250 soldati. Sulla Stampa, la ministra della Difesa Pinotti ha annunciato che per contrastare l’immigrazione irregolare si entrerà entro tre mesi nella seconda fase del piano con l’impegno della Nato per la sorveglianza delle coste in acque territoriali libiche.
La seconda motivazione dell’inopportunità dell’intervento italiano riguarda le reazioni libiche. In Libia l’appoggio italiano al governo Sarraj di fatto si è tramutato in un sostegno alle fazioni islamiste, secondo le interpretazioni dell’altro governo ancora in carica. Il generale Paolo Serra, consulente della missione Onu in Libia, ha riconosciuto, in un’intervista a Panorama, che fra gli alleati del nuovo governo guidato da Sarraj ci sono i “poliziotti” di Abdel Aruf Qara e i miliziani di Abdelhakim Belhadj, entrambi ex jihadisti qaedisti che hanno combattuto in Afghanistan. Ha anche ammesso che l’Onu tratta con tutte le forze sul terreno a parte Ansar al Sharia, Al Qaida e Daesh. “Non abbiamo preclusioni – ha ammesso – per trovare una soluzione politica. Queste milizie si sono dichiarate favorevoli a una nuova istituzione governativa. Ci si può fidare se il contatto è basato sul reciproco rispetto”.
La cautela con la quale il governo Renzi sta trattando la vicenda della missione militare non sarà mai troppa. La nota di Palazzo Chigi sulle fughe di notizie apparse sulla stampa nazionale è stata secca: “Nessuna offerta di fronte a nessuna richiesta”. È nota da tempo l’esistenza di un piano – confermato recentemente in via confidenziale – per la spedizione di 250 soldati a difesa delle sedi diplomatiche a Tripoli. In effetti, bisogna prima di tutto sapere cosa andare a fare, per non impantanarsi in un’avvenutra militare dolorosa. Un conto è la protezione delle sedi diplomatiche e degli organismi internazionali a Tripoli, un’altra è mandare soldati per proteggere i pozzi in mezzo al deserto. Una terza cosa ancora è combattere contro Daesh.
Dal lato libico, la situazione non è del tutto chiara. Lo stesso comunicato stampa di Sarraj è ambiguo e parla di richiesta di sostegno per proteggere gli impianti petroliferi, sostegno che si potrebbe svolgere con il monitoraggio dei cinquemila chilometri di frontiera terrestre, soprattutto quelle a Sud, da dove arrivano miliziani jihadisti e traffici d’armi. Le intenzioni di Sarraj per il momento si limitano a essere un comunicato e non un passo diplomatico con richiesta ufficiale di questo sostegno, che non è esattamente una richiesta di intervento militare.
Non solo, ma adesso si è messo di traverso anche il parlamento eletto che accusa esplicitamente l’Italia di mire sul petrolio. In una conferenza stampa, il presidente del parlamento Aqila, ha alzato la voce in risposta alle dichiarazioni della ministra Pinotti. L’uscita allo scoperto del presidente Aqila, colpito da una sanzione Ue per aver ostacolato di fatto il voto di fiducia al governo Sarraj, è motivata anche da come si sta conducendo in sede Onu e nelle cancellerie occidentali, che privilegiano i rapporti con le componenti islamiste, assicurando a loro un’influenza politica sulle sorti della futura Libia, a scapito delle altre componenti, quelle autonomiste regionali e l’alleanza delle forze nazionali e democratiche.
La situazione libica appare spaccata in due realtà contrapposte e non dialoganti, esattamente come nella fase precedente ai negoziati di Skheirat. La differenza è che le potenze occidentali sono riuscite a mettere al centro della trattativa la componente islamista, spurgata dalle frange estremiste. Nel mirino della comunità internazionale sono finiti per essere il presidente del parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale, Aqila, e il capo di Stato delle forze armate, il generale Haftar, che ha combattuto e vinto la battaglia contro Daesh a Bengasi.
Il braccio di ferro sulla figura del generlae Haftar è il centro dello scontro politico. La sua azione contro Daesh non viene riconosciuta dalle cancellerie occidentali e dall’Onu, che continuano a mantenere l’embargo sul riarmo. L’inviato speciale delle nazioni Unite, Kobler, lo ha declassato a capo di una fazione, sostenendo che “l’Esercito Nazionale guidato dal generale Haftar non è l’esercito libico riconosciuto da tutti”. L’inviato dell’Onu non ha escluso altre sanzioni contro personalità e istituzioni libiche che continuano le operazione ostruzionistiche nei confronti del governo Sarraj. Queste affermazioni sono state interpretate a Tobruk come un accenno all’arrivo di nuovi rifornimenti militari all’esercito nazionale libico guidato dal generale Haftar. E così il voto di fiducia per il governo Sarraj si allontana sempre di più, perché sono i deputati fedeli al generale a bloccare i lavori dell’assemblea legislativa libica e a impedire il raggiungimento del numero legale.
In una polarizzazione politica così forte, un eventuale intervento occidentale sarebbe come l’ingresso di un elefante nella stanza di cristalli.