Mai il processo costituente di un’unione dei Paesi europei è stato a rischio di concludersi traumaticamente come in queste settimane.
Le cause dell’odierna incertezza sono tutte interne alla stessa logica con la quale si è lavorato negli ultimi anni. L’introduzione dell’euro ha segnato infatti uno spartiacque tra i sogni e la realtà, mettendo a nudo le cose. Si è accettato che nove Stati su ventotto non adottassero l’euro (alcuni per essere entrati nell’UE dopo la sua nascita, altri come Danimarca e Regno Unito per scelta precisa), e quindi che si creassero due diverse “zone” dentro la stessa Unione, quella euro e quella non euro.
E così si è resa palese l’esistenza di due visioni incompatibili sulla via della costruzione europea.
La prima, quella storicamente rivendicata da Londra, considera l’Unione Europea semplicemente come un’area di libero scambio con qualche vincolo in più, ma senza alcuna cessione di sovranità sui “fondamentali” (esteri, difesa, moneta, fiscalità). L’altra visione, quella franco-tedesca, punta alla costruzione progressiva di un super-Stato guidato dai Paesi forti. In questo caso, la volontà di cedere sovranità è stata dimostrata con l’istituzione dell’euro: ma, per la Germania, solo in cambio della possibilità di gestire la moneta dettando le regole.
In buona sostanza, un’Europa liberoscambista a traino anglosassone oppure un’Europa timidamente federalista a traino tedesco.
Non a caso il Regno Unito è il grande sponsor del TTIP, l’accordo di partenariato con gli USA, che trova invece in Germania e in Francia le più grandi resistenze.
La crisi che investe il futuro dell’Europa unita si arricchisce di diversi malintesi. Per esempio quelli che si sono creati con i Paesi dell’Est entrati negli ultimi anni, e per i quali l’Unione è soltanto un finanziatore delle economie nazionali, che non deve interferire negli affari interni: neanche quando palesemente si violano la libertà di stampa, i diritti delle opposizioni, la libera circolazione delle persone. Un altro malinteso riguarda i Paesi mediterranei, stretti nella morsa della disoccupazione, della stagnazione della crescita e del debito pubblico. Quanto è accaduto alla Grecia insegna che una delle condizioni fondamentali per la costruzione di un rapporto stretto tra Stati, e cioè la solidarietà, non fa più parte del processo europeo. La dice lunga il fatto che la Germania, nella crisi greca, è riuscita a salvare le proprie banche esposte grazie ai soldi comunitari, ma si è opposta all’ipotesi di alleggerire il debito di Atene, dopo diverse ristrutturazioni, socializzandolo tramite l’emissione di eurobond. La Grecia non può fallire, in quanto agganciata a una moneta forte come l’euro, ma non può nemmeno ristrutturare il proprio debito (come qualsiasi Paese sovrano) né socializzarne una parte, come nelle federazioni. In sostanza, la Grecia può solo patire e trascinarsi con un debito impagabile fintanto che a Bruxelles si continuerà a tirare a campare.
Questa situazione, già di per sé pessima, è precipitata ulteriormente con la Brexit, cioè con l’uscita del Regno Unito dalla UE grazie a un referendum indetto quasi per gioco dal premier David Cameron. È stato pericolosissimo andare a stuzzicare il vecchio e sedimentato sentimento isolazionistico della Gran Bretagna nei confronti dell’Europa: e le conseguenze della vittoria del “no” potrebbero portare fino alla dissoluzione del Regno Unito, con l’uscita della Scozia e dell’Irlanda del Nord che potrebbero scegliere di agganciarsi all’Europa.
Per non parlare dei danni all’economia inglese rispetto al suo principale mercato di riferimento. Un pasticcio gigantesco, insomma, dalle ripercussioni difficilmente valutabili.Se invece avesse vinto il sì all’Europa, sarebbe continuata la navigazione a vista, senza darsi obiettivi ambiziosi, perché Londra avrebbe usato sempre il suo peso per bloccare qualsiasi accelerata verso la costituzione di una vera federazione.
Oggi più che mai ci vorrebbe una classe politica europeista, come quella degli anni ’50-’70 del secolo scorso. Ci troviamo invece a fare i conti con il piccolo cabotaggio di leader senza progetto e con le arringhe nichilistiche di leader arruffapopoli. Eppure l’Europa comunitaria è l’unico esempio mondiale di integrazione non soltanto economica. L’unica area che ha la pretesa di diventare non solo mercato comune, ma anche un’area di civiltà. Un progetto “pericoloso” per i regimi autoritari che si consolidano nei Paesi emergenti, ma anche per gli stessi Stati Uniti, che hanno una visione opposta del partenariato.
Per questi motivi l’Europa sognata da Altiero Spinelli ha tanti nemici, interni ed esterni. E per questi motivi l’Europa merita di essere salvata, per convenienza e per principio.