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Stragi sul lavoro. Cambiano le modalità dell’orrore, non cambia il copione

Continuani le stragi sul lavoro, cinque operai sono morti in un incidente sul lavoro avvenuto a Casteldaccia, nel Palermitano

Una volta bruciati, un’altra annegati, e poi travolti da un treno, sepolti da un crollo, soffocati, come topi tra i cunicoli di una fognatura. Cambiano le modalità dell’orrore, non cambia il copione. Ad iniziare, in questo caso, dal tema degli appalti. La municipalizzata di Palermo aveva esternalizzato il servizio di manutenzione delle fognature ad una ditta esterna. A causa dei tagli alla spesa pubblica, alla spending review dei comuni, era a corto di personale e attendeva da anni nuove assunzioni. E quindi, ancora, a capire innanzitutto per chi lavorassero le persone coinvolte. Perché il tema della sicurezza non è una questione che riguarda solo norme e controlli, ma riguarda come il mondo del lavoro è stato trasformato da leggi e tagli. Ad esempio l’allungamento della vita lavorativa, una delle vittime aveva 71 anni e non è meno grave che fosse uno dei titolari. Un altro era un lavoratore interinale. Il copione poi prevede di individuare con precisione le cause, e fa sorgere domande scontate: possibile che chi svolgesse un lavoro cosi pericoloso, finire in un cunicolo con sostanze potenzialmente nocive, non avesse dispositivi di protezione adeguati? E come mai? Per altro la tragica cronaca degli incidenti sul lavoro ne ripropone spesso questo tipo: in silos, cisterne, scavi, le cronache ne sono piene e spesso sono vere e proprie stragi: perché come sembra accaduto in questo caso, uno si sente male, ed a catena succede a tutti gli altri, e solo i più fortunati riescono a salvarsi. Il passo che segue è quello in cui qualche politico con responsabilità di decidere fa comunicati di cordoglio. Salvo poi lasciare tutto come prima, perché “non si disturba chi produce”.

Un anno iniziato a suon di stragi atroci, e nella costanza dei 3 omicidi al giorno. E l’apparente assenza di rimedi. Che di solito vanno su tre punti: pene più severe, più controlli, più formazione. Come se la sicurezza fosse un discorso “a parte” rispetto al contesto di come si lavora, con che norme, con che cultura. Tagli alla spesa pubblica che appaltano servizi essenziali quanto pericolosi come le manutenzioni, sono anche problema di sicurezza. La formazione è basica, ma allungare la vita lavorativa, mandare sempre più tardi le persone in pensione, è una coperta corta, e l’età alta di chi muore sul lavoro, quindi lavoratori “più formati”, ci dice che la lotta per andare prima in pensione è lotta per la sicurezza. I controlli sono fondamentali e salvano vite, ma leggi come il Jobs Act, che spostano potere dai lavoratori alle imprese, impediscono il primo dei controlli: quello da parte di chi lavora, legano le mani alle Rls. In contesti di precarietà e assenza di diritti, la sproporzione di forze è tale che non si può scaricare la responsabilità sul singolo lavoratore che, magari timoroso di perdere il posto, compia consapevolmente lavori pericolosi. La lotta per abolirlo è lotta all’insicurezza per la vita e all’insicurezza. L’impunità degli omicidi sul lavoro ha radici calate nel sistema giuridico, più che nella severità delle pene. Ma nell’attuale deregolamentazione dell’attività d’impresa, a partire dagli appalti, serve un approccio complessivo alla sicurezza, cambiando quella cultura politica, che va da destra a pezzi di sinistra, prona al concetto di centralità dell’impresa e rimetta al centro chi lavora. Oggi trattato alla stregua di una macchina in una dinamica costi/benefici. Se il basso salario sta in una logica di estrazione di valore, sfruttamento in senso tecnico, anche la vita di chi lavora è ormai in pieno in questa a logica. Senza questa battaglia politica e culturale, torneremo periodicamente ad indignarci per la prossima strage.

  • Autore articolo
    Massimo Alberti
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    A partire da poesie e racconti originali, Pippo Delbono mette in scena un gesto di solitaria ribellione, mosso dalla volontà di continuare a vivere, allargando lo sguardo verso ciò che ci circonda, a costo di trovarsi di fronte a una realtà peggiore di quella da cui si era fuggiti. Attraverso il racconto salvifico delle proprie debolezze, paure e speranze, l’artista crea uno spettacolo che è un’invocazione alla rinascita e che, a partire da un’esperienza personale, sfocia nella rappresentazione universale di quel “sentimento di perdita” che riguarda tutti. Il risveglio è un lavoro sulle cadute e i risvegli, dedicato a chi si è addormentato e poi risvegliato, e a chi ancora non lo ha fatto. Attorno a Pippo Delbono, gli attori della Compagnia danzano sulle note struggenti che suonano lamenti di amore e tenerezza evocando un rito sacro, un funerale forse. Sulle note del virtuoso violoncellista Giovanni Ricciardi, in scena con il suo strumento, e su brani che provengono dalla memoria degli anni Settanta, Delbono si ripete: «Devi danzare, danzare nella tua guerra». Ira Rubini l'ha raggiunto per Cult il giorno dopo il debutto milanese del suo spettacolo Il risveglio

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