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L’Egitto ammette: indagammo su Regeni

La polizia egiziana indagò su Giulio Regeni. Per la prima volta l’Egitto ammette che la sua polizia aprì un dossier e investigò sul giovane ricercatore italiano, torturato e ucciso al Cairo.

È uno degli esiti dell’incontro, della due giorni di faccia a faccia tra il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e quello d’Egitto, Nabil Ahmed Sadek

È stato lo stesso Sadek a fornire i dettagli: “La polizia del Cairo, in data 7 gennaio 2016, ha ricevuto dal capo del sindacato indipendente dei rivenditori ambulanti un esposto su Giulio Regeni, a seguito del quale la polizia ha eseguito accertamenti sull’attività di Regeni. Al termine delle verifiche, durate tre giorni, non è stata riscontrata alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale e, quindi, sono cessati gli accertamenti”.

Più volte in Italia si era avanzato il sospetto che qualcuno avesse messo la polizia egiziana sulle tracce di Giulio. L’agenzia Reuters aveva rivelato che Mohamed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti al centro della ricerca di Regeni, era un informatore dei servizi segreti egiziani.

L’incontro tra i magistrati italiani e quelli egiziani sembra aprire un primo spiraglio nella strada verso la verità, che resta piena di ostacoli. I magistrati egiziani cercano di recuperare credito con quelli italiani, dopo tutti i depistaggi e le false notizie di questi mesi arrivati dal Cairo.

Un incontro che si è concluso con l’impegno reciproco a proseguire il confronto, a differenza di quello precedente di aprile, che finì con una rottura.

Nel merito: la documentazione fornita dagli egiziani è stata definita ampia e approfondita sul traffico delle celle telefoniche delle aree in cui Regeni è scomparso e in cui il corpo è stato ritrovato.

Nulla di fatto invece per quanto riguarda i video del sistema di sorveglianza della metropolitana del Cairo chiesti dai magistrati italiani. “Vi è il comune impegno – si legge nel comunicato congiunto – a superare gli ostacoli tecnici che sinora hanno impedito di completare l’accertamento”.

Nel comunicato c’è anche traccia del ritrovamento dei documenti del ricercatore in casa di uno dei parenti del capo della gang uccisa dalla polizia egiziana il 24 marzo scorso. Una pista a cui la Procura di Roma non ha mai creduto. Ora anche gli egiziani smentiscono se stessi riconoscendo solo “deboli indizi di un collegamento tra i cinque componenti la banda e il sequestro e l’uccisione di Regeni”.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, l’organizzazione che per prima ha lanciato la campagna “verità per Giulio Regeni” commenta così le parole della dichiarazione congiunta: “Il comunicato contiene una serie di aggettivi di segno positivo, che sono importanti e impegnativi. Naturalmente, chi da mesi cerca la verità per Giulio Regeni sa benissimo che quella verità arriverà solo se ci sarà la piena collaborazione della Procura egiziana con quella italiana. La verità passa per quegli incontri e quindi prendiamo atto che in quella nota ci sono degli aggettivi che impegnano l’autorità egiziana a dare seguito a ciò che ha detto e portato. La vedo come la partenza di una corsa a ostacoli, di cui non conosciamo la lunghezza“.

Ascolta qui l’intervista integrale a Riccardo Noury

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