A Milano circa 150 strade e piazze sono intitolate a militari o luoghi di battaglie della storia coloniale italiana. Sono sparse in tutta la città e non le notiamo. Così come spesso non sappiamo nemmeno chi fosse la persona a cui è intitolata la via in cui viviamo. Ad esempio, chi era Ulderico Ollearo che dà il nome alla via dove ha sede Radio Popolare? Un militare italiano, decorato, perché morto conquistando un avamposto austriaco nella Prima guerra mondiale. “Falciato alla mitraglia”, diceva De André. Alcuni di questi decorati e ufficiali delle patrie glorie però sono stati anche aggressori, torturatori, gasatori… l’armamentario peggiore della violenza e della guerra. E forse è il tempo di provare almeno a discutere se non rimuovere questa “celebrazione” presente della violenza, scambiate per patriottismo. Il dibattito sta attraversando da anni tante società e comunità nel mondo, a partire da quelle colonizzate ovviamente, con l’abbattimento di statue, la ridenominazione, commissioni per la verità e la giustizia. Nel caso italiano si segnala una maggiore coscienza dei ricercatori, della letteratura e soprattutto delle nuove generazioni, a partire da quelle afro-discendenti, del tema e del silenzio in cui è rimasto avvolto nel tempo.
Anche le istituzioni cominciano ad interessarsene. A Milano ad esempio, il Museo delle culture MUDEC, da sempre interessato alla ricerca sulle culture del mondo in collaborazione con le comunità internazionali presenti in città, ha in questi anni riattivato il dialogo con le comunità Habesha – termine con cui si indicano i cittadini della diaspora etiope ed eritrea – presenti a Milano coinvolgendole in “Milano Globale. Il mondo visto da qui”, un percorso permanente del museo. Ora il Mudec ha commissionato all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (quello della Resistenza ma anche della Storia contemporanea) uno studio delle delibere comunali sulle intitolazioni a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. Ne è nata una mappa e un sito: Odonomastica coloniale a Milano che potete consultare liberamente. Il progetto fa parte del percorso Milano è memoria. E martedì 13 febbraio viene presentato a Palazzo Marino, tutto il progetto “Pagine rimosse”, insieme alla “Rete Yekatit 12-19 Febbraio” che merita alcune considerazioni.
Yekatit 12, la faccia feroce del colonialismo italiano
Yekatit è il mese etiope che corrisponde a febbraio e il 12 di Yekatit equivale al 19 febbraio Giornata della Memoria per la strage compiuta dagli italiani nel 1937 ad Addis Abeba quando circa 3mila civili vennero massacrati per rappresaglia all’attentato contro il Vicerè dell’Etiopia occupata, il maresciallo Rodolfo Graziani. La maggior parte delle vittime erano anziani, donne e bambini chiamati ad assistere alla cerimonia e poi mitragliati dai soldati italiani. L’invasione italiana (e fascista) in Etiopia iniziò nel 1936 e durò fio al 1941. Era l’ennesimo tentativo di conquistare un Paese che aveva già due volte ricacciato l’aggressore italiano.
Oggi questo nome è ripreso da un gruppo di giovani per lo più “una costellazione aperta, fluida e informale, espressione di una pluralità di soggetti singoli e collettivi che da anni si interessano alla storia coloniale italiana e alle sue complesse eredità” e che in molte città d’Italia dove opera vede la partecipazione di giovani italiani afro-discendenti. In queste settimane per ricordare la strage e riprendere il filo di una memoria che non esiste nel nostro paese come nella nostra coscienza, hanno promosso iniziative in decine i città, a partire da Roma e Bologna dove è più forte la loro presenza (per consultare le iniziative questo è il link della sua pagina.
Letteratura e racconti post-coloniali
A Milano, insieme a Mudec, Istituto Parri, Comune e Rete Yekatit ci sarà anche la proposta artistica di Gabriella Ghermandi (scrittrice, performer, musicista e attivista italo-etiope), dal titolo “Regina di fiori e di perle – la storia di una famiglia italo/etiope a cavallo tra le leggi razziali dell’occupazione italiana d’Etiopia”, tratto dal suo omonimo romanzo (uscito per Donzelli), che rovescia il mito dell’italiano “colonialista buono” e ricostruisce un’altra memoria del nostro passato coloniale. Insieme a Ghermandi, possiamo citare oggi molte autrici di importanti romanzi o saggistica dedicati al tema del colonialismo italiano, dell’identità meticci, della sottovalutazione o assenza del tema nella nostra cultura come Ribkha Sibhatu (forse la prima), Erminia Dell’Oro (ricordiamo il romanzo L’abbandono per Einaudi tra gli altri) oppure Igiaba Scego con molte opere tra cui “Roma negata, percorsi post-coloniali nella città” (in collaborazione col fotografo Rino Bianchi) che tratta proprio i ciò o ancora Sangue giusto di Gabriella Melandri che prova a declinarlo nella relazione con i migranti di oggi e il romanzo meticcio di Wu Ming2 e Antar Marincola Timira. (una segnalazione più milanese ma molto sentita va anche al bellissimo documentario Asmarina di Medhin Paolos e Alan Maglio sulla comunità Habesha di Porta Venezia a Milano).
Il punto: basta celebrazioni coloniali
Il fermento internazionale e locale in questa ripresa di coscienza è fertile e ci aiuta a comprendere ieri e guardare oggi; è soprattutto un potente specchio di quante incrostazioni fasciste, razziste, maschiliste siano rimaste intatte nella Italia repubblicana e post-fascista. Sarebbe per la patria una sana occasione di riscatto culturale, comunitario, a partire dalle parole, dai nomi, dalle celebrazioni. Si perché il problema della persistenza della memoria coloniale così come elaborata negli anni del fascismo o della Prima Repubblica, non significa solo celebrare la guerra d’aggressione, la dominazione e il razzismo, col suo carico di fucilazioni, impiccagioni, stupri e gas usato indiscriminatamente sulla popolazione civile.
Su questo punto gli storici (pochi e scarsamente sostenuti) continuano il loro racconto con sempre maggiore precisione sul ruolo delle nostre truppe nel Corno come nel Nord d’Africa. Esistono filoni di ricerca per i tanti eccidi scarsamente documentati precedentemente. L’esempio più noto e potente è sicuramente il libro di memorie intitolato: Plotone chimico Cronache abissine di una generazione scomoda di Alessandro Boaglio, edito da Mimesis, e curato dal figlio dell’autore Giovanni e dallo storico Matteo Dominioni, tra i massimi ricercatori italiani sul tema (ricordiamo Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, uscito per Laterza). Esistono case editrici, ancora, piccole ma combattive come Tamu a Napoli che fa parte della rete che pubblicano piccoli gioielli come: “L’ascaro” di Ghebreyesus Hailu, un racconto diaristico davvero rivelatorio della vita di un giovane eritreo che si arruola con l’esercito coloniale italiano.
Nonostante tutto quello che sappiamo, però, la memoria e le istituzioni ancora non vanno d’accordo, per nulla, se il viceministro agli esteri Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia (un ex militare) può impunemente affermare il 30 giugno scorso, alla festa della Gioventù Nazionale Fenix (sic!): “L’italiano è da sempre una persona che rispetta il prossimo, lo dico senza fare vaneggiamenti. Sia nel periodo pre-fascismo sia durante il fascismo, il governo italiano, l’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito e realizzato una cultura civilizzatrice”. Un altro mondo; che non vede, non sente, ma parla.
Rimuovere le lapidi e le statue?
Ovviamente della distanza tra verità storica e politica dovrebbero occuparsene i media e la politica stessa. Anche perché la connessione tra il militarismo e un certo revanchismo, se non razzismo, conosce un revival grazie a generali scrittori che riescono a infiammare la platea della destra rievocando persino una impossibile (storicamente) purezza delle genti italiche. Cose per cui si dovrebbe essere bocciati col 5 in condotta e invece si viene promossi nel nostro Esercito. D’altronde, sempre il nostro esercito continua a onorare il più decorato dei militari italiani il pioniere dell’aviazione Antonio Locatelli, eroe bergamasco per eccellenza visto che ha nella provincia più intitolazioni i vie e scuole di Garibaldi. Sicuramente eroico pilota ma altrettanto fascistissimo, razzista e soprattutto lanciatore di bombe all’iprite sui villaggi etiopi (come racconta lui stesso nelle lettere alla madre che doveva essere “orgogliosa” delle sue gesta contro donne e bambini considerati razza inferiore, “dovevi vedere come scappavano”). Eppure non c’è paese in Lombardia che non abbia una intitolazione a Locatelli, comprese tante scuole elementari. Oggi noi cittadini italiani vogliamo che i nostri figli vadano in scuola intitolata all’eroico aviatore?
Una rete bergamasca che si chiama Progetto Adriana ha dato la sua risposta da tempo, insieme all’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea che conduce la sua sensibilizzazione nei confronti del Comune e della cittadinanza, chiedendo di riassegnare alla omonima partigiana Adriana Locatelli, la costellazione di vide, palazzi, piazze, scuole dedicati al criminale di guerra. “Il fascismo è ancora una presenza reale – scrivono – per questo ci impegniamo anche a mappare le realtà fasciste del territorio, smascherare le misure di repressione che anche oggi ci opprimono, mostrare quali elementi della nostra società sono ancora strettamente collegati a un’ideologia fascista” (ecco il link al loro progetto).
Ora, senza scomodare la cancel culture, citata a sproposito per lo più su media e nel dibattito politico, come ci ricorda la filosofa Federica Sossi proprio dell’Università di Bergamo nel suo “Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano” uscito per Carocci, “la nostra esperienza è avvolta da una ‘estetica inconsapevole’ che pure alimenta il nostro sapere” è si nutre di militarismo, di razzismo, di colonialismo. Ancora oggi. E’ venuto il tempo di agire.