I dati ISTAT su povertà e consumi diffusi oggi rischiano di essere solo un antipasto dei prossimi mesi, se la guerra non si fermerà e continuerà la crisi dell’energia.
Partiamo dai consumi: dopo il recupero del 2021, a gennaio son tornati a calare dello 0,5%. Del resto, se si deve fronteggiare l’aumento di gas e luce, resta meno per altre spese. Almeno per i ceti più deboli che, come l’Istat ha spiegato negli ultimi rapporti, sono ovviamente quelli che subiscono di più le conseguenze dell’inflazione. E così, i dati sulla povertà, nonostante l’effetto positivo del reddito di cittadinanza, rilevano che ancora il 7,5% delle famiglie versano in povertà assoluta. 5 milioni e 600mila individui, il 9,8%, come lo scorso anno. Solo che, sottolinea Istat, la fiammata dei prezzi di fine hanno ha frenato il calo previsto.
Senza la crescita dei prezzi al consumo registrata nel 2021 – sottolinea l’Istituto – l’incidenza di povertà assoluta sarebbe stata al 7,0% a livello familiare e all’8,8% a livello individuale. E parliamo di un’inflazione all’1,9%, cresciuta oltre il triplo dei salari, ma che nel 2022 sta già sfiorando il 5%, con gli effetti immaginabili. Per chi lavora il danno rischia di essere doppio con pesanti ricadute sul sistema produttivo. In generale, sono le industrie cosiddette energivore che stanno andando più in crisi. Perché oltre alle bollette di casa, la dipendenza italiana dal fossile si ripercuote anche qui.
Il presidente di Assocarta, l’associazione delle industrie cartiere, ha annunciato il fermo di molte fabbriche: imballaggi, carte igieniche sanitarie, carte grafiche che non ci stanno più con i costi. Con conseguente cassa integrazione per i dipendenti.
I prezzi dell’energia esplosi non sono l’unico problema. L’altro è la carenza di materie prime che sta fermando il siderurgico. Nel nord, in particolare nel bresciano ma non solo, si fermano le prime industrie e fonderie. Anche qui, ammortizzatori sociali. Ghisa, ferro, preridotto, rottame, ma anche zinco, rame, nichel iniziano a scarseggiare e molti arrivano proprio dall’area russo-ucraina, 15 milioni di tonnellate di prodotti base all’Europa. E i costi sono alle stelle: il prezzo del laminato a caldo è passato da 180 a 1.150 euro a tonnellata, decuplicato.
I laminatoi parlano di scorte per circa un mese. “Impossibile avere dati esatti ma le comunicazioni di stop son continue, e siamo solo all’inizio”, non è ottimista il responsabile siderurgia Fiom Gianni Venturi. Infine, dopo i camion, è la pesca a patire l’aumento del gasolio. I pescherecci sono tenuti fermi nei porti. Confindustria intanto ha convocato una riunione di emergenza del proprio direttivo. Pur con ricette diverse, imprese e sindacati in questo caso sono uniti nel denunciare l’immobilismo del governo.
Infine c’è il problema dei cereali: una delle conseguenze che sta portando la guerra è l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari. L’Ucraina ha sospeso le esportazioni di alcuni prodotti per il crescente rischio di carenza di cibo. Le esportazioni di grano e mais saranno consentite solo con il permesso del ministero dell’Economia. Questi cereali sono anche quelli che stanno facendo segnare, giorno dopo giorno, nuovi record dell’aumento dei prezzi, con ricadute su tutto il mondo.
Alla borsa merci di Chicago, ed alla Borsa di Parigi, i due mercati di riferimento, grano e mais bruciano record storici: il grano ha superato i 430 dollari la tonnellata. Un boom di quasi il 50% in poco più di una settimana. Sia Russia che Ucraina sono tra i principali produttori ed esportatori di grano. Se l’Ucraina raziona le scorte, la Russia è sotto embargo.
Al largo delle coste ucraine ci sono oltre un centinaio di navi bloccate dalla guerra. Oggi è praticamente impossibile, lavorando con la Russia (e paesi limitrofi) finanziare un cargo, perché le banche non emettono lettere di credito se sentono puzza di sanzioni, che potrebbero anche incrementare, rileva l’esperto di trading di materie prime Gennaro Senatore.
Facendo venir meno una fetta sostanziale della produzione, intorno a un terzo della produzione mondiale. Rimpiazzare un terzo della produzione mondiale ovviamente non è impresa facile, “i prezzi avranno un impatto mondiale specie sulle famiglie più povere”, scrive infatti il Fondo monetario internazionale. L’importazione si dirotterà su altri paesi, Canada e USA per l’Europa, a prezzi ovviamente maggiori con gli impatti inflattivi che stiamo già vivendo, combinati ai prezzi dell’energia, e che pesano più sui ceti deboli.
In grossa difficoltà sono anche la Turchia e il Nordafrica in particolare, dipendente dal grano russo, così come il subcontinente indiano. E per questi paesi il rischio reale non è solo l’aumento dei prezzi, ma di una carenza di materie prime, con tutte le conseguenze del caso su possibili carestie, spinte migratorie, instabilità politica.