Dal 1° luglio i canali Sky italiani subiranno una riorganizzazione e nasceranno quattro nuove reti. Una delle novità è un canale interamente dedicato ai documentari, Sky Documentaries, su cui approderanno diversi titoli–serie e film –prodotti da HBO e Showtime: tra questi, il più atteso e chiacchierato è probabilmente Allen v. Farrow, che negli Stati Uniti è andato in onda lo scorso febbraio sollevando polemiche arrivate, già allora, anche da noi.
La miniserie, come da titolo, vuole raccontare la battaglia legale tra Woody Allen e Mia Farrow ai tempi del loro brutto e molto pubblico divorzio, e soprattutto far luce sulle accuse che l’autore aveva ricevuto nel 1992 di aver molestato sessualmente la figlia adottiva Dylan. Il documentario è realizzato da HBO in collaborazione con Mia, Dylan e altri figli, tra cui il giornalista Ronan (colui che, con una celebre inchiesta, ha contribuito ad avviare il movimento #MeToo), e la parzialità del racconto è evidente, anche se gli autori cercano di compensarla leggendo brani dell’autobiografia di Woody e accostando sue vecchie interviste a quelle nuove, esclusive, concesse ora dalla famiglia Farrow (Allen e la moglie Soon Yi Previn hanno rifiutato di farsi intervistare perché sostengono di essere stati contattati con pochissimo preavviso, e che tutta l’operazione sia solo una trovata scandalistica). Come accade periodicamente fin dagli anni 90, la vicenda infiamma gli animi e divide il pubblico, soprattutto perché, a dispetto di chi si dice certo di sapere come siano andate le cose, stabilire una verità senza ombra di dubbio è impossibile: Allen si è sempre professato innocente e non è mai stato nemmeno processato, perché il giudice dell’epoca, dopo alcune indagini, decise che non fosse il caso di proseguire; Dylan Farrow, dal canto suo, ripete per anni inamovibile la sua versione dei fatti, e anche oggi, a 35 anni, implora di essere creduta. Al di là di ogni considerazione, è difficile non sospettare da parte di HBO un certo opportunismo e una certa ambiguità etica nel produrre questa miniserie.
Se amate la forma del documentario, allora, abbiamo da consigliarvi due alternative, radicalmente diverse. La prima è 1971 –L’anno in cui la musica ha cambiato tutto: è una miniserie disponibile da qualche settimana su Apple Tv+, coordinata da Asif Kapadia, il documentarista premio Oscar già autore di Amy e Senna, e tratta dal bel libro del critico musicale inglese David Hepworth 1971 –L’anno d’oro del rock. Sticky Fingers dei Rolling Stone, What’s Going Ondi Marvin Gaye, Imagine di John Lennon, Hunky Dory di David Bowie, Blue di Joni Mitchell sono solo alcuni dei dischi cruciali pubblicati nel 1971, mentre attorno, come sintetizza qualcuno, “gli anni 60 muoiono”: un periodo tumultuoso in cui si spengono le utopie contro culturali, l’America processa Charles Manson e va a processo per la strage di My Lai, e in tutto il mondo scorrono tensioni e contraddizioni. Kapadia ha curato un lavoro imponente e ritmato, di ricerca e ri-sistemazione di un’enorme mole di documenti video, una grande opera di montaggio tra musica ed eventi storico-sociali che dà davvero l’idea che la musica non fosse “solo un riflesso dei tempi, ma fosse essa stessa a crearli”.
Un grande lavoro di ricerca è anche quello che hanno fatto i produttori di Pride, miniserie disponibile dal 25 giugno nella sezione Star di Disney+, uno dei primi progetti con cui la multinazionale di Topolino si schiera apertamente a sostegno dei diritti civili LGBTQ. Sei puntate, ognuna firmata da un diverso regista, ognuna dedicata a un decennio delle lotte della comunità queer, dagli anni 50 ai giorni nostri, dai moti di Stonewall alla storica sentenza della Corte suprema sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Gli autori hanno recuperato materiale inedito, restaurato immagini che si pensavano perdute e naturalmente intervistato i protagonisti delle lotte. Un ottimo modo di sfruttare la forma documentaria e seriale per far dialogare la nostra storia con l’oggi.