“Sono di Cantù, ho sempre un pallone da basket in macchina e oggi sono venuto a giocare con questi ragazzi”.
Paolo ha 52 anni, un tiro discreto dalla media distanza e, noblesse, vive in una delle capitali della pallacanestro italiana. Un canestro montato in fretta su uno degli abeti secolari che adornano il giardino di fronte alla stazione ferroviaria di Como San Giovanni e si gioca. “Si impegnano -mi dice alludendo ai ragazzi che da settimane aspettano di passare la frontiera con la Svizzera- non hanno grande tecnica ma si sono divertiti”.
E’ una delle tante cose che accadono a Como in questi giorni, in questo lembo di Lombardia che mai aveva visto nulla di simile. “A un certo punto si è avvicinato un signore, era di Washington, ci siamo messi a parlare di un professionista della sua città che ha giocato a Cantù, così si è unito a noi”
“Era forte?”
“Fortissimo” risponde Paolo.
Ragazzi somali, eritrei, etiopi, che hanno sfidato la morte per arrivare in Europa, divisi nei loro paesi da guerre infinite, si ritrovano a Como, un pomeriggio di agosto, giocando a pallacanestro con un canturino e con un americano che chissà perché era qui. Pochi momenti in cui le distanze, le frontiere, il tempo perdono di significato sotto a un canestro.
“Tornerò sicuramente” dice Paolo, il quale è convinto che a Como i volontari abbiano reagito bene all’emergenza, supplendo alle carenze dell’amministrazione
Ascolta Paolo
Del resto, il solo momento di tensione in queste giornate è stato quando una televisione nazionale ha piazzato le sue telecamere e ha alimentato la polemica sollevata da alcuni politici della destra che urlavano, da dietro i monitor, contro questi ragazzi, i quali sognano una vita altrove, perlopiù non in Italia, in Svizzera ma soprattutto in Germania, o in Francia.
Viste da qui, da Como San Giovanni, le speculazioni politiche italiane, le porte chiuse dell’Europa, le paure di quei comaschi che nelle vie del centro dicono sottovoce “hanno la scabbia” e quindi si tengono a distanza dalla stazione, sono fantasmi e tutto sommato problemi minori rispetto all’urgenza della sopravvivenza, e rispetto all’inferno che ci si è lasciati alle spalle.
Ibrahim (si presenta col nome italianizzato, Abramo) non molla un’istante sua sorella. Viene dalla Somalia. “Facevo il meccanico. Al Shebaab (l’organizzazione terroristica vicina ad Al Qaeda-ndr) mi ha telefonato e mi ha detto o stai con noi o ti ammazziamo. Siamo scappati”. Il resto è l’odissea del viaggio dei migranti, la speranza di una nuova vita a Zurigo:
Ascolta Ibrahim
Ibrahim ha 38 anni. Un’eccezione. La maggior parte dei 500 profughi di Como sono giovanissimi. Molti hanno i crocefissi al collo, sono cristiani copti. Forse credevano che sarebbero stati accolti diversamente, nel cuore della cristianità. Lo Stato sono le camionette della Polizia che discretamente si tengono pronte. Un presidio della Croce Rossa. Alcune tende della Caritas che ospitano al massimo 70 persone, con precedenza alle donne incinte, a quelle con problemi di salute e ai bambini ma solo se accompagnati. I minori soli no, altrimenti sarebbero costretti dalla legge a identificarli, impedendo loro di chiedere asilo in un altro Paese. L’altra notte un nubifragio ha fatto volare via le tende, ieri sono state rimontate.
“E’ poco” ci dice una volontaria della mensa di Sant’Eusebio, che ogni sera offre il pasto ai profughi in un oratorio nel centro della città “ci abbiamo messo dieci giorni a ottenere che la sera ci fossero un paio di medici per le visite”.
Flavio Bogani è il volontario che ha organizzato la mensa di Sant’Eusebio. Una pagina su Facebook, un appello cui hanno risposto a centinaia. Volontariato laico, cattolico, la parrocchia. Le appartenenze contano poco. “E’ il futuro che irrompe a Como”
Ascolta Flavio Bogani
La solidarietà ha anche i suoi aspetti paradossali. Una grande azienda che produce alimentari telefona a Flavio e fa un’offerta: “abbiamo dei prodotti in scadenza, li volete? Vado a vedere: erano 134mila confezioni di yogurt”.
“Ci hanno portato pure degli scarponi da neve” dice un po’ perplesso un altro volontario. E’ abbonato a Radio Popolare ma niente nome, per favore.
Ascolta il volontario della mensa di Sant’Egidio
Ragazze e ragazzi sono in fila davanti alla porta dell’oratorio, per l’unico pasto della giornata. Tra loro ci sono i leader che tengono uniti tutti e evitano che tra diverse nazionalità possano sorgere problemi. Sul pratone di Como San Giovanni etiopi ed eritrei convivono e collaborano.
Un ragazzino si avvicina alla cronista di una televisione e le fa un gesto: dammi soldi e faccio l’intervista. Poi scoppia a ridere. E’ uno scherzo. Non parlerebbe a prescindere, non si farebbe riprendere. Ride anche per esorcizzare la paura.
Cerchiamo Sami tutto il pomeriggio. Sami è il portavoce del gruppo. E’ eritreo, è stato anni in carcere in Etiopia, ha sul corpo i segni delle botte e della guerra. Porta una grande croce al collo, è un diacono copto, ci dicono. Ma non si vede. Ore dopo veniamo a sapere che ha provato a passare. Gli svizzeri lo hanno fermato. A sera, forse, verrà riportato indietro. Molti ci provano. Sono in 50, assieme a Sami, in attesa di essere rispediti in Italia. C’era una donna incinta, mancavano 5 giorni al parto, voleva che il figlio nascesse in Svizzera, sostengono i volontari. Non si trova più. Forse ce l’ha fatta. A Como si rivedono i passatori. Figli e nipoti degli spalloni che negli anni d’oro del contrabbando si arricchivano trasportando le sigarette. Conoscono tutti i sentieri che, sulle montagne, portano di là. Ma i tempi romantici del traffico di sigarette sono lontani. La Svizzera usa droni e raggi infrarossi per pattugliare il confine, la ramìna nel dialetto comasco e ticinese che sono la stessa cosa perché è la stessa terra, la stessa gente, la stessa cultura. Anche se, spiega Flavio, pure in Svizzera c’è solidarietà e qualche cosa, dice, comincia a muoversi:
Ascolta Flavio Bogani
Ascolta qui l’audio reportage da Como