L’obiettivo di ridurre il surriscaldamento climatico di 2 gradi entro il 2100 è stato fissato nel corso del vertice sul clima di Parigi dello scorso dicembre. La dichiarazione finale della COP21 impegna, non in modo vincolante, solo i governi e le istituti finanziari internazionali. Ma prima dell’apertura dei lavori, associazioni, governi e istituzioni hanno discusso anche con le banche private: senza il loro apporto, la battaglia per il pianeta non si può vincere. L’assunto è semplice: “Anche con una rapida transizione globale dall’estrazione del carbone e dagli impianti elettrici a carbone, questi obiettivi climatici sono irraggiungibili senza lasciare la maggioranza di riserve di petrolio e gas nel mondo”.
Sei mesi dopo la stesura dell’agenda per il clima, sono pochi gli istituti di credito ad aver ascoltato l’appello. Secondo il rapporto Shorting the climate, scritto dalle Ong Rainforest action network e BankTarack (di cui fa parte anche la Ong italiana Re:Common, che segue i particolare le politiche sul carbone), ci sono 25 banche che continuano a sostenere progetti dannosi per il clima. Dal 2013 al 2015 hanno erogato 784 miliardi di dollari in attività come l’estrazione di petrolio nell’Artico e in altre aree definite “ultra offshore”, miniere di carbone o impianti elettrici a carbone. “Le banche stanno scommettendo sul nostro fallimento nell’affrontare il cambiamento climatico”, spiega Amanda Starbuck, tra le autrici del rapporto per la Rainforest Action Network. Questo azzardo però si potrebbe trasformare in un boomerang. Non solo per quanto sia eticamente discutibile la scelta, ma anche per i danni d’immagine connessi al disimpegno sul fronte climatico, sottolineano le Ong.
Eppure che anche le banche dovessero fare la loro parte era stato chiarito fin dal percorso pre Parigi. La R20 (Region for change, un vertice a cui partecipano mondo finanziario, regioni, industria delle rinnovabili) nel 2014, per esempio, aveva stilato un elenco di obiettivi a medio termine. A cui hanno risposto positivamente solo i gruppi di banche francesi ed australiani. BNP Paribas, Société Géneral e Crédit Agricole hanno inserito tra i criteri per scegliere la finanziabilità di un progetto anche il rispetto dell’ambiente. Nonostante questo, in alcuni casi il report le segnala ancora coinvolte in progetti poco chiari. I tagli più netti li hanno effettuati nel settore del carbone. Insieme a 38 aziende francesi, BNP è entrata in una coalizione che s’impegna a dare 45 miliardi di euro tra il 2016 e il 2020 alle energie rinnovabili.
CHI FINANZIA IL CARBONE – Da una prospettiva europea, il dato più interessante che emerge riguarda il mondo connesso al carbone. Non solo perché c’è sul piano ambientale è impossibile ridurre le emissioni di gas serra senza aver ridotto a zero il consumo di carbone. Ma anche sul piano finanziario non ha senso. La domanda di carbone nel solo 2015 si è ridotta di una cifra tra il 2 e il 4 per cento sul piano globale, si legge nel rapporto. I segni meno più importanti, peraltro, riguardano Cina (- 3,7%) e Stati Uniti (-13%). Sempre negli Usa, i prezzi delle azioni delle compagnie minerarie che estraggono carbone hanno avuto un crollo del 92 per cento. Eppure oltre 42 miliardi di dollari provenienti delle banche sono finiti in finanziamenti per il settore dell’estrazione mineraria. Ci sono Paesi, come la Germania, dove Barclay’s prevede che entro il 2030 ci sarà ben poco da investire nel carbone.
Al di là della frontiera con la Polonia, però, “industrie pubbliche e private stanno premendo per aprire delle nuove miniere di lignite con il supporto delle più importanti banche”, si legge nel rapporto. Dal 2004 il Paese punta sul settore. Ecco i nomi di chi ha finanziato: BNP Paribas, Société Générale, ING, Citigroup, Commerzbank, UniCredit e Santander. Nonostante il grande sforzo, però le ultime due aziende che ci hanno provato – Polska Grupa Energetyczne (PGE) and Zespół Elektrowni Patnów-Adamów-Konin (ZE PAK) – hanno fallito miseramente, collezionando un buco di 680 milioni nel 2015.
LE CENTRALI A CARBONE – Yann Louvel, coordinatore di BanckTrack per il settore clima ed energia, dichiara: “Molte banche hanno annunciato di voler lasciare il carbone durante l’avvicinamento a COP21 e dopo il vertice, ma molte si sono concentrate sull’estrazione di carbone. La nostra ricerca mostra concretamente quanto sia ancora lunga la strada per uscire da quest’industria e dalle energie fossili. Nessuna di queste banche può affermare di sostenere gli Accordi di Parigi se continua a finanziare questo settore”. Ci sono almeno una dozzina di banche, tra europee e americane che investono nel carbone come fonte di energia, nonostante il mercato sia in difficoltà, soprattutto a causa della materia prima a basso prezzo prodotta in Cina. Sui 154 miliardi di dollari di investimenti che vale il settore, CitiGroup ne mette 24,06.
IL CASO UNICREDIT – Unicredit è l’unico istituto italiano inserito nell’elenco dei 25 analizzati nel rapporto. Per investimenti, si colloca sempre nella parte bassa della classifica (il settore più importante è quello delle centrali elettriche a carbone, con 3,65 miliardi di dollari) . Il rapporto individua anche delle carenze di regolamentazione. La banca ha solo reso pubblici i criteri della due diligence per i progetti che riguardano il carbone, hanno inserito una regolamentazione interna per i progetti che hanno conseguenze sui diritti umani, ma non hanno nulla per le estrazione “ultra offshore”.