L’ultima relazione semestrale al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) contiene alcune novità nell’analisi del fenomeno mafioso. Memos ne ha parlato con uno dei maggiori esperti di criminalità organizzata, in particolare della ‘ndrangheta, come Enzo Ciconte. Il professor Ciconte insegna Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre e Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia. E’ coautore – insieme a Francesco Forgione e Isaia Sales – di un “Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura” giunto al terzo volume (Rubbettino Edizioni).
Professor Ciconte, nella relazione la DIA scrive che le organizzazioni di stampo mafioso stanno assumento “la morfologia caratteristica dei gruppi societari internazionali”. Cosa significa?
«Vuol dire che c’è una trasformazione delle organizzazioni mafiose, in particolare la ‘ndrangheta. Non abbiamo più i vecchi insediamenti mafiosi, o meglio possiamo dire che agli insediamenti mafiosi classici si sono aggiunte queste nuove forme che la Dia mette in evidenza».
Cosa l’ha colpita di più?
«Guardi, dobbiamo premettere che la relazione della Dia è un documento istituzionale e che, per certi aspetti, è anche paludato. In questo documento c’è scritto che sarebbe “miope limitare la percezione” del fenomeno “alle sole evidenze giudiziarie”.
Che cosa significa?
«Vuol dire che la Dia stessa mette in guardia chi legge dal pensare che le mafie siano soltanto quelle che emergono dai fatti giudiziari. Invece non è così, ci dice la Dia. Secondo me, è un fatto molto importante e segna un passo in avanti nell’analisi. Ad esempio: se da punti diversi (da Milano, da Roma, dalla Calabria) osserviamo la realtà, ci accorgiamo che il problema della mafia è ben al di là di ciò che dicono le inchieste giudiziarie. Un giudice porta a processo una persona se ha le prove, ma molto spesso accade che ci siano dei comportamenti che non riescono ad avere un’evidenza giudiziaria. Quindi, trovo di grande interesse la sottolineatura della Dia e la considero come una novità positiva, perchè indirizza la ricerca sul fenomeno mafioso anche da parte di altri, non solo della magistratura».
La Dia scrive che le organizzazioni di stampo mafioso affondano le loro radici in “un intreccio profondo tra mafia e corruzione”. E’ anche la tesi del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che parla di un sistema di “mafio-corruzione“. Cosa ne pensa?
«La corruzione è il problema del futuro. C’è un punto di grande importanza che voglio dire con nettezza e, allo stesso tempo, augurando a me stesso e a tutti noi di sbagliarmi. Ripeto: mi auguro vivamente di sbagliare analisi. Finora siamo stati abituati a guardare alla mafia come ad un prodotto della violenza armata dei mafiosi (l’omicidio, la rapina) e di attività, tipo il narcotraffico, che creavano grande allarme sociale, con la conseguente reazione della popolazione e delle forze dell’ordine. Io ho l’impressione che questo tipo di mafia continuerà ad esserci, ma diventerà sempre più marginale. Inoltre, credo che potrà emergere una nuova forma di organizzazione che può replicare il modello di Mafia-Capitale di Roma. Si tratta di un modello dove sono stati messi insieme la corruzione e il metodo mafioso, senza che sia stato sparato un colpo di pistola e sapendo, allo stesso tempo, che dietro il metodo mafioso c’era la possibilità di utilizzo della violenza.
Quindi, possiamo dire che abbiamo un modello di mafia che può essere replicato, anche per una ragione molto semplice. Mi spiego: nella vicenda di Mafia-Capitale non c’è stato alcun mafioso “classico” (il calabrese, il siciliano o il campano). Erano tutti romani. Questo tipo di mafia non ha bisogno del controllo del territorio, di riti di affiliazione. E’ un modello che si può replicare ovunque, in particolare – a causa della diffusione della corruzione – maggiormente al nord che al sud a causa della presenza di maggiore ricchezza nelle regioni settentrionali. Ripeto: mi auguro di sbagliarmi nell’analisi. Se, invece, l’analisi dovesse risultare corretta, allora sarebbe più complicata l’individuazione di tali fenomeni, occorrerebbero lenti nuove per leggere la realtà. Quanto accaduto con Mafia-Capitale dimostra che c’è stata una capacità di corruzione devastante, arrivata fino al consiglio comunale e alla giunta di Roma e senza che nessuno se ne accorgesse. Per questa ragione sono preoccupato. Se si replica il modello romano sarà più difficile indagare rispetto a quanto si fa oggi, ad esempio, per individuare il narcotraffico o l’omicidio mafioso».
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