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Tratto dal podcast
Chassis di dom 22/11/20
Chassis | 2020-11-22
Daniele Vicari, regista e supervisore artistico de “L’Alligatore”, l’adattamento in quattro episodi dei romanzi di Massimo Carlotto che debutta questa sera su RaiDue – ma è già disponibile su RaiPlay – racconta a Radio Popolare le sfide affrontate nel trasporre un mondo così suggestivo come quello dei libri dello scrittore veneto in quelli che sono quattro veri e propri film per la TV.
L’intervista di Barbara Sorrentini a Chassis.
I romanzi di Massimo Carlotto diventano film. Tu hai diretto alcuni di questi episodi, ma sei rimasto supervisore su tutto. Che cosa ti ha ispirato questo personaggio della scrittura di Carlotto, che collabora alla sceneggiatura?
Io non ho mai amato il racconto della criminalità, devo dire. Quando ho fatto il film “Prima che la notte” su Beppe Fava, per esempio, ho tolto di mezzo la rappresentazione del mondo criminale, perché l’ho sempre vissuta con grande fastidio e disagio. Nei romanzi di Carlotto, invece, grazie a una sua grande ironia, a un gioco di generi continuo, al fatto che anche i personaggi più piccoli abbiano delle grandissime contraddizioni, riesco a starci come lettore e anche a divertimi, a godermeli. L’Alligatore è un personaggio incredibile perché vive di queste contraddizioni estreme: è un cantante che non canta più, è un detective che cerca la giustizia, ma non crede nella legge. È un personaggio talmente pieno di spunti e di sfaccettature che permette di allontanarsi da certi schemi narrativi che sono tipici delle serie crime. Mi sono buttato a pesce in questo mondo pieno di spunti ed è venuta fuori una cosa abbastanza singolare.
L’Alligatore, Marco Buratti, è interpretato da Matteo Martari. Come lo avete scelto?
Per me l’unica legge esatta che c’è nel cinema è il provino. Abbiamo fatto dei provini ad alcuni tra gli attori più importanti italiani, e l’incontro con Matteo è stato particolarmente intenso e interessante, anche perché Matteo è di Verona e viveva di una grandissima rimozione, quella della sua appartenenza. Non utilizzava più il dialetto da moltissimi anni, l’aveva quasi estirpato avendo studiato dizione ed essendo entrato nel mondo della recitazione. Aveva fatto un salto e spento dentro sé stesso questa sua appartenenza. Nel provino c’è stato un incontro meraviglioso perché l’ho un po’ provocato, e lui ha tirato fuori questa cosa straordinaria che appartiene anche ai romanzi di Carlotto, ovvero la sensazione netta, quando si parla con un veneto che viene da quelle zone, che siano nati nell’acqua. L’ho visto proprio lì davanti a me l’Alligatore, ed è stata una bellissima scoperta.
Sono quattro film, visibili già su RaiPlay e dal 25 novembre anche su RaiDue. Hai già avuto riscontri su questa nuova modalità di distribuzione?
I riscontri li abbiamo avuti immediatamente. Ho scoperto sui social che ci sono persone che hanno incominciato a vederlo a mezzanotte e un minuto, un minuto dopo che l’abbiamo messo online. L’Alligatore ha un grandissimo seguito come personaggio letterario, e fino ad oggi nessuno aveva avuto la possibilità di lavorarci, non era mai stato trasposto cinematograficamente. Domenico Procacci ha avuto i diritti di tutti i romanzi, per cui siamo riusciti a fare un progetto complesso e compiuto. Anticipare su RaiPlay le opere che poi andranno sui canali generalisti è una novità interessante che ho accolto con grande favore. RaiPlay, da un anno a questa parte, sta facendo una bellissima politica, per esempio con una pazzesca rivisitazione delle opere di Truffaut. Loro hanno un pubblico particolare di appassionati di cinema. Poi su Rai2 ci sarà la messa in onda canonica: da mercoledì 25, per quattro mercoledì, si potrà vedere “L’Alligatore” ogni sera per 100 minuti.
Le immagini dei film da un lato rimandano a un noir classico, dall’altro mostrano la tua impronta. E poi c’è l’aspetto musicale, presente anche nei romanzi. Come avete messo insieme tutte queste cose fondamentali per la riuscita di un film?
In questa cosa si è sostanziata quella che è definita supervisione artistica. Leggendo i romanzi di Carlotto ho immediatamente capito una cosa: Carlotto attraversa tutti i generi, dal western all’hard-boiled più spinto. Non è un’impresa semplice, ma è una sfida bellissima per un regista cercare una chiave di lettura, che è passata proprio attraverso il blues. Ascoltando sia i grandi pezzi che vengono citati nel romanzo, sia altri territori blues, ho visto con chiarezza che noi dovevamo ambientare questo racconto nella nostra Louisiana, e la nostra Louisiana è la Laguna, che parte dalle valli e arriva fino a Portogruaro. Un territorio enorme e meraviglioso, quasi inesplorato dal punto di vista cinematografico, perché un territorio anche difficile, non è semplicissimo lavorarci. La Laguna è il luogo naturale dove l’Alligatore è cresciuto, è dove il blues della nostra tradizione viene fuori dall’acqua, come l’llligatore, che vive a pelo d’acqua, tra il cielo e acqua. Questo tipo di vita duplice si rispecchia nei romanzi, e da lì nasce la chiave lettura anche visiva di tutto il racconto. I colori che hanno influenzato la scelta dei costumi, quel bellissimo marrone, il verde, il rosso. Tutte queste caratteristiche sono entrate nel racconto attraverso il blues, e quindi anche l’andamento del racconto è stato fortemente influenzato dalla musica blues.
Vai un po’ da Dick Tracy al cinema asiatico. Sono due impronte molto forti.
Hai ragione, per questo ti dico che il racconto della criminalità in Carlotto è del tutto secondario. È chiaro che l’ambiente è quello, ma l’Alligatore per esempio è uno che si rifiuta di usare le armi. È molto difficile da raccontare perché apparentemente non porta avanti l’azione, che nel romanzo è molto psicologica. Quello che siamo riusciti a fare è una sorta di hard-boiled psicologico, un mix di generi e di tensioni.
Sono quattro film, anche nella durata. Quando li avete girati e come?
Questa non è una serie standardizzata. Noi abbiamo a fare con quattro racconti verticali, perché si concludono tutti. Ogni serata prende come base narrativa un libro per cui c’è un inizio, uno svolgimento e una fine. Allo stesso tempo, però, ci sono tutta una serie di fili che rimangono aperti nei quattro film, fili orizzontali che poi portano comunque avanti una storia più grande di quella che si vede in campo, puntata per puntata. Questo metodo di racconto è molto interessante, perché rende estremamente ricca e variegata la rappresentazione e la storia dei singoli personaggi. Questa è una chance incredibile. Quando abbiamo deciso che avrei fatto lo showrunner dell’opera, la cosa che era chiara a tutti è che non sarebbe stata un’opera standardizzata, o standardizzabile. Ho dovuto cominciare a realizzare il primo racconto, quasi per intero, in modo tale che il secondo regista, ovvero Emanuele Scaringi, potesse entrare in questa atmosfera senza perdersi dei pezzi. Normalmente nelle serie televisive standard si definisce appunto un certo tipo di standard. Qui lo standard è l’atmosfera. Il secondo regista aveva il compito molto difficile di andare in scia, che non è facilissimo da costruire, ma è abbastanza determinato nel tempo. Abbiamo girato tra Roma e il Veneto. A Roma abbiamo trovato degli angoli del Tevere molto belli e inediti, che in qualche modo si sposano perfettamente con il Piave, con la zona del Padovano, e ci permettono di raccontare quella Louisiana dell’Alligatore che avevamo in mente, una Louisiana che non esiste perché è un mondo interiore di questo personaggio straordinario.