La casa editrice Tunué ha spento a luglio di quest’anno 20 candeline. Per festeggiare ha lanciato diverse iniziative speciali, come il logo rivisitato dal fumettista spagnolo Paco Roca, uno dei loro autori di punta. Proprio di Roca, che è tra i più famosi e celebrati autori di fumetto spagnoli contemporanei, ha anche da poco pubblicato l’ultimo romanzo, intitolato L’abisso dell’oblio.
Un graphic novel scritto a quattro mani con il giornalista di El Mundo Rodrigo Terrasa che racconta un’incredibile e drammatica storia vera. Anzi, tre. Quella del contadino repubblicano José Celda, fucilato e sepolto in una fossa comune dai franchisti nel 1940, quasi due anni dopo la fine della guerra civile. Quella di sua figlia Pepica, che si è battuta tutta la vita per poter far riesumare e identificare i resti del padre. Per non dimenticarlo mai, come le avevano chiesto, o meglio ordinato, la madre e la zia, morte senza poter dare una tomba a José. Nel 2011, a quasi 80 anni, Pepica aveva fatto notizia in Spagna, perché era diventata l’ultima persona ad aver ottenuto la sovvenzione del governo per riesumare le vittime della guerra civile. In base alla legge sulla memoria storica, approvata dal governo Zapatero nel 2007.
La terza e ultima storia de L’abisso dell’oblio è quella di Leoncio Badia: il becchino del cimitero di Paterna, vicino a Valencia, dove si trovano 135 fosse comuni e, si stima più di 2.000 corpi. In gran parte messi in terra proprio da Leoncio, giovane repubblicano che l’amicizia con un curato salvò dalla morte in carcere e che, pur di lavorare, fu messo dalle autorità “a seppellire i [s]uoi”. Negli anni in cui lavorò come becchino, Leoncio collaborò in segreto con le vedove di guerra, per identificare i corpi e dare loro una sepoltura degna.
Fu proprio grazie a lui che quando gli archeologi forensi iniziarono a scavare nella fossa 126, riuscirono a capire che tra i 144 corpi che conteneva c’era molto probabilmente anche quello di José Celda. Il becchino aveva meticolosamente nascosto sotto ogni cadavere delle bottigliette di vetro, ciascuna con un pezzo di carta su cui aveva scritto la data dell’esecuzione e il nome dei morti riconosciuti dalle parenti.
Come sempre nei romanzi di Paco Roca, il ritmo cadenzato del racconto, l’uso della linea chiara e di palette cromatiche semplici, declinate sapientemente per segnare i diversi momenti cronologici della storia, sono al servizio delle vicende umanissime dei personaggi. Attraverso i dettagli, i silenzi, i piccoli gesti, riporta delle vicende personali ma universali con una delicatezza che non lascia mai spazio alla morbosità. E neanche all’odio. Inserendo tra un capitolo e l’altro la storia di Achille, Ettore e Patroclo, con un tratto che evoca i disegni delle anfore greche, Roca rafforza il valore universale di questo racconto. Legando la battaglia di Pepica per riavere i resti del padre a quella dei riti funerari, vecchi quanto il mondo. Tanto quanto il dolore di chi non può dare l’ultimo addio ai propri cari.
Senza funerali, senza tomba, senza possibilità di essere ricordata, cosa resta di una persona dopo la morte? Dare un nome a delle vecchie ossa permette di onorarne la vita e la memoria. Di farle uscire dall’Abisso dell’oblio, appunto. Un gesto che se non può restituire i vivi, offre almeno una qualche consolazione ai sopravvissuti. Lo sanno bene le vittime della dittatura franchista. E di ogni altra dittatura.
L’abisso dell’oblio. Di Paco Roca e Rodrigo Terrasa. Traduzione di Diego Fiocco. 304 pagine a colori. Tunué, 24 euro.