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La violenza sulle donne in Grecia e quel cambiamento profondo che non è ancora arrivato

violenza donne Grecia ANSA

Il nome Caroline, in Grecia, è diventato un sinonimo di violenza contro le donne. Caroline, che sta per Caroline Crouch. Aveva 20 anni quando è stata uccisa dal marito. Babis Anagnostopoulos l’ha strangolata nella casa di Atene dove vivevano con la figlia di pochi mesi. Per settimane aveva portato avanti una storia falsa, secondo cui dei ladri erano entrati in casa, l’avevano legato ad una sedia e avevano ucciso Caroline davanti ai suoi occhi. Ha confessato dopo un mese, dopo essere stato arrestato al memoriale per la morte della moglie.

Il caso di Caroline aveva sconvolto l’opinione pubblica. Quando Anagnostopoulos è stato arrestato, la tv nazionale aveva sospeso la copertura degli Europei di calcio per darne l’annuncio. 
Dopo l’arresto di Anagnostopoulos, però, un alto esponente della polizia greca, Stavros Balaskas, in un’intervista televisiva aveva detto: “È stato un evento malaugurato, dettato dalla rabbia, ha perso il controllo ed è impazzito. Se avesse confessato subito, se la sarebbe cavata con quattro anni di prigione”.

Dopo quelle parole ci sono stati diversi femminicidi che sono stati caratterizzati da una chiamata tempestiva da parte degli uomini che li hanno commessi alla polizia. Secondo le famiglie delle vittime, la dichiarazione di Balaskas ha in qualche modo incoraggiato l’idea che i colpevoli potessero influenzare i tribunali e ricevere pene più leggere. Ma più di tutto, la dichiarazione di Balaskas è una rappresentazione limpida e concreta della cultura maschilista della polizia ellenica, che troppo spesso sottovaluta la violenza sulle donne, rendendo possibili – e sempre più frequenti – i femminicidi.

A luglio di quest’anno, Anisa – una donna che viveva nel quartiere Dafni di Atene – chiamò la polizia denunciando la violenza del marito. La volante impiegò 25 minuti prima di arrivare e nonostante tutto il quartiere potesse sentire il marito di Anisa abusare di lei, gli agenti non scesero nemmeno dalla macchina. Si fermarono per qualche minuto fuori dal palazzo dove viveva Anisa con il finestrino abbassato, e poi se ne sono andati. Meno di tre settimane dopo, Anisa era morta, assassinata dal marito.

Dall’inizio del 2021 in Grecia ci sono stati 12 femminicidi e un numero molto più alto e molto più difficile da stabilire di abusi e violenze domestiche. Un numero in continua e costante crescita, che preoccupa le associazioni femministe. Dentro questi numeri ci sono una cultura maschilista profondamente radicata, una giustizia che non crede alle donne e che sottovaluta le loro denunce e una legge che lascia un grado di impunità elevatissimo per gli uomini che uccidono le donne.

La Grecia ha firmato la convenzione di Istanbul solo nel 2018 e da allora sta cercando di migliorare il modo in cui affronta la violenza di genere, con la creazione di un dipartimento apposito che monitora il modo in cui la polizia gestisce le denunce di violenza o abusi e con l’introduzione del corpo di polizia di agenti appositamente formati. Ma non è abbastanza, il cambiamento deve essere più profondo. Le denunce di stupro nel 2020 sono calate del 23% rispetto al 2010, ma i casi di violenza e femminicidi continuano ad aumentare – ogni anno di più. “Non c’è possibilità di parlare, ecco perché le donne non parlano” dicono le associazioni “la nostra è una società patriarcale”.

Il caso di Caroline Crouch ha scosso la Grecia, e ha gettato luce su un fenomeno che è sempre esistito ma è sempre rimasto nel buio dell’indifferenza, la stessa che spesso tocca alle donne che lottano tutti i giorni con uomini violenti, e la stessa che è toccata a Caroline, ad Anisa, a Garyfallia, a Konstantina e a tutte le altre che non sono riuscite ad uscire dal buio.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    Le nostre mani ci permettono di entrare in contatto con il mondo e con la realtà che ci circonda, creando relazioni di vicinanza e intimità. Tuttavia, il nostro tocco è sempre più influenzato e mediato dalla tecnologia, che cambia il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con gli altri. Nella performance partecipativa "Hands Made" le mani diventano protagoniste: gli spettatori sono invitati, nell’oscurità, a osservare la propria mano e quelle dei vicini, isolate dal corpo. L’artista turca Begüm Erciyas indaga così le trasformazioni del nostro rapporto con il tocco nel corso della storia per ripensare e riscoprire il senso del tatto e del contatto. Oggi a Cult da Ira Rubini ospite proprio l'artista turca per parlare del suo "Hands Made", alla Triennale Milano il 15 e 16 marzo.

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