Confesso che non sono in grado di esprimere un giudizio riguardo al caso Weinstein, se non quello di provare solidarietà e pena per le ragazze che ne sono state vittima, evidentemente sotto ricatto psicologico. E sinceramente non voglio nemmeno esprimere un giudizio ma riflettere sui commenti girati sui social, anche molto livorosi e rabbiosi nei confronti di Asia Argento. Peraltro ho trovato la sua intervista a La Stampa molto sincera e obiettiva. Mi ha colpito quando dice, in sintesi: “Mi sento in colpa per non aver detto di no, per non essere scappata diventando così una vittima”. Nel suo caso, l’Argento riconosce un errore, per paura di compromettere la propria carriera di attrice e di regista (trattandosi di un produttore di tale levatura, non è un dettaglio). Perché è vero, in casi come questo, una donna può anche scegliere di non diventare vittima, ma il prezzo da pagare spesso è troppo alto. E bisogna essere molto forti per liquidare una proposta sessuale sul posto di lavoro come l’atteggiamento di un pervertito.
Qui nel ‘primo mondo’ se pensiamo alle donne vittime della violenza maschile, ci vengono in mente le spose bambine, le ragazze messicane stuprate e uccise, le immigrate costrette a prostituirsi, le donne stuprate durante la guerra nella ex Jugoslavia, le femmine denudate e violate durante le dittature di Cile e Argentina. E si potrebbe andare avanti con un elenco infinito.
Oppure, tutti quei crimini a sfondo sessuale ad opera di psicopatici seriali, così ben raccontati peraltro da film americani come “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, in cui una madre cerca giustizia per la figlia stuprata e bruciata o “Mystic River”. E anche qui l’elenco, soprattutto nel cinema americano, è lunghissimo.
Ma tornando ad Harvey Weinstein. Posto che molte delle donne che sono finite tra le sue grinfie non hanno denunciato per paura di perdere il lavoro, di essere annientate, di subire ritorsioni (non è difficile immaginare i motivi, anche se si tratta di Hollywood, sempre di lavoro, reputazione e dignità si tratta) è incredibile che nessuno si fosse mai accorto di niente. Ora tutti dicono che si sapeva, ma perché nessuno, magari meno coinvolto in prima persona, non ha denunciato?
Questa è una macchia irreparabile per tutto il sistema cinema hollywoodiano. Quanti film abbiamo visto che denunciano l’atteggiamento maschilista dei produttori americani nei confronti delle donne, a partire da Woody Allen, e che evidentemente tentavano di raccontare cosa succede dietro le quinte? E forse non è un caso che tutta l’inchiesta sia partita dalle pagine del New Yorker a firma di Ronan Farrow. La stessa Asia Argento ha sempre ammesso che nel suo film “Scarlet Diva”, la scena delle molestie da parte del produttore è autobiografica. E allora qual è il punto?
Presto uscirà il bellissimo film “La battaglia dei sessi”, di Jonathan Dayton e Valerie Faris (“Little Miss Sunshine”) sulla rivalità tra i due campioni del tennis Bobby Riggs (Steve Carell) e Billie Jean King (Emma Stone) e la sfida sportiva tra un uomo e una donna più agguerrita e rappresentativa d’America, per affermare la parità di diritti e di compensi nei campionati tra uomini e donne. Era il 1973 e intorno a questo episodio, importantissimo per le battaglie femministe e dei diritti LGBT, viene rappresentato in modo terribilmente efficace il maschilismo e la violenza ideologica e verbale degli uomini nei confronti delle donne. Quello che è successo realmente a Hollywood è figlio di quel retaggio.