Doveva essere destino trovarmi “casualmente” a Cuba per l’ultimo saluto al Comandante en Jefe Fidel Castro Ruz. Come nell’ottobre 1997, quando dalla Bolivia giunsero i resti del Che. Anche allora il percorso fu il medesimo: dall’oceanico tributo nella Plaza de la Revolución di L’Avana, fino a Santa Clara, dove fu inumato. Ma l‘affollatissima carovana con le ceneri di Fidel, seguendo lo stesso tragitto (all’inverso) di quei primi giorni del gennaio 1959, è proseguita fino all’estremo oriente, a Santiago, culla della rivoluzione ai piedi della Sierra Maestra. Ceneri del “Comandante en Jefe” che sono state deposte nell’ultimo saluto ieri nel cimitero di Ifigenia, a fianco della tomba del padre dell’indipendenza dalla Spagna José Martí.
Sì, perché Fidel, è stato prima di tutto un nazionalista e un antimperialista; e a ragion veduta, per essere a sole 90 miglia dalle coste del “gigante del nord”, che di fatto operò l’annessione della Perla de las Antillas convertendola nel bordello di Miami (affidato in gestione al dittatore Fulgencio Batista).
Il partito comunista esisteva già dagli anni venti a Cuba. Ma Fidel attese fino al 1965 per ricostituirlo ex novo: dopo il tentativo d’invasione della Baia dei Porci, dopo l’imposizione dell’embargo economico-commerciale e numerosi vani tentativi di stabilire con Washington un rapporto di reciproco rispetto e sovranità.
Influenzato da Che Guevara, Castro aveva già espresso un suo orientamento socialista; ma fece più tardi la scelta di campo definitiva, per necessità, giostrandosi magistralmente fra le due superpotenze. E senza al contempo inginocchiarsi a Mosca; al contrario mantenne una grande autonomia nella sua politica verso l’America Latina e, successivamente, anche verso l’Africa, figurando tra i leaders del Movimento dei Non Allineati, per un’autodeterminazione dei popoli.
Terminata la “guerra fredda” con la caduta del Muro di Berlino, Cuba perse il proprio ruolo internacionalista, salvo continuare a inviare medici e maestri in tutto il Centro e Sudamerica (e non solo). I più la diedero mille volte per spacciata. Sono passati invece ben 11 presidenti degli Stati Uniti (alcuni per un doppio mandato) ma Cuba è ancora lì, con la stessa dignità. Chi avrebbe mai detto che avrebbe resistito ormai per quasi sei decadi, tre delle quali orfana dell’Urss? A testimoniare come quella cubana, con il suo “socialismo tropical”, sia stata una rivoluzione autenticamente popolare.
Tocca ora a tre generazioni cresciute da Fidel continuare nella sua opera: resistendo all’imminente “era Trump”, in un subcontinente latinoamericano dove (dopo la debacle dei governi di Brasile e Argentina) pare si sia invertita l’ondata progressista.
Intanto lui, Fidel, la storia l’ha fatta; e di certo la storia lo assolverà.