C’è qualcosa che alla serialità televisiva può riuscire meglio che ad altri linguaggi e ad altri medium: costruire mondi, prima ancora che storie e personaggi; edificare universi alternativi densi di dettagli che si approfondiscono e diventano più tangibili una puntata dopo l’altra, e qualche volta perfino s’intrecciano con la nostra realtà.
Da Twin Peaks in poi, passando per l’emblematico caso di Lost, sono spesso queste le serie che generano negli spettatori una passione smodata, un’adorazione vagamente ossessiva, quella che gli accademici chiamano “fruizione di culto”: succede perché, oltre ad apparecchiare sullo schermo dei mondi paralleli, questi show chiedono agli spettatori di indagarli con attenzione, di esplorarli, di decifrarli, di giocarci.
I due prodotti che, oggi, più rappresentano questa tipologia seriale, entrambi della prestigiosa rete americana HBO ed entrambi con un grande seguito globale di appassionati, sono Il trono di spade e Westworld: il primo ha il “gioco” direttamente nel titolo originale (Game of Thrones), il secondo si svolge letteralmente in un parco giochi che però è anche un mondo artificiale tanto ben fatto da sembrare vero. Per l’ottava e ultima annata di Il trono di spade dovremo aspettare l’anno prossimo, ma la seconda stagione di Westworld è finalmente cominciata: i creatori Lisa Joy e Jonathan Nolan (che è il fratello del regista di Inception e Dunkirk Christopher Nolan, nonché sceneggiatore di gran parte dei suoi film) promettono di alzare la posta e di moltiplicare i colpi di scena.
La prima stagione ci aveva portati a Westworld, un parco giochi del futuro per adulti facoltosi, in cui veniva ricostruito alla perfezione il Far West, soprattutto come ce lo immaginiamo grazie al cinema. I clienti potevano andare a caccia di banditi o di indiani, assaltare treni, rilassarsi nel saloon, interagendo con robot identici a esseri umani e sfogando, a volontà, i propri istinti più profondi e bestiali, quelli che nel mondo reale vengono repressi per garantire una normale convivenza civile. Ma come sa chi frequenta le storie di fantascienza, una volta creato un androide identico all’uomo e fornitolo di intelligenza artificiale, non ci vorrà molto perché prenda coscienza di sé e decida di ribellarsi a un destino di schiavitù: ed è esattamente qui che la prima stagione di Westworld ci ha lasciati, sull’orlo di una guerra dalle conseguenze inimmaginabili.
Nei nuovi episodi, oltre a numerose new entry nel cast (tra cui l’attore scozzese Peter Mullan e l’attrice giapponese Rinko Kikuchi), scopriremo che il vecchio West non è l’unico parco giochi di quest’universo futuribile: ce n’è almeno un altro, Shogun World, ricostruzione del Giappone del periodo Edo (per i cinefili, anche un richiamo al legame che unisce i western ai film di samurai).
Il bello di questo tipo di serie – e Westworld in questo è perfetta – è che funzionano a strati, come superfici da sfogliare andando sempre più in profondità: un’appassionante serie d’intrighi e di colpi di scena da seguire, una trama densa di misteri da sciogliere attraverso una caccia d’indizi, un’indagine filosofica su cosa significhi essere “umani” e “coscienti”, una metafora politica sullo sfruttamento (coloniale? Classista? Razziale? Di genere?), un discorso meta-televisivo, cioè una riflessione su cosa voglia dire scrivere e realizzare una serie tv, e di conseguenza guardarla. A quale livello volete giocare, dipende da voi.
*giornalista per Film TV.