È calato il sipario anche sul 7 dicembre 2023, anno complicato politicamente, in Italia e nel mondo. “Don Carlo” di Giuseppe Verdi, diretto da Riccardo Chailly, è il titolo scelto per questa apertura. Un Verdi “politico”, che riflette sul potere, sulla rivalità fra padri e figli, sui popoli oppressi e sulle colpe della Chiesa. Nei giorni scorsi più di un imbarazzo per un palco reale pesantemente sbilanciato a destra, con in testa Ignazio La Russa. Con un tardivo rattoppo, il Presidente del Senato prega la senatrice a vita Liliana Segre di sedersi a sua volta in palco reale. Il pubblico le tributa un lungo applauso e si alza in piedi. In un foyer non proprio stimolante, varia umanità, con alto tasso di influencer e blogger, presenzialisti di media e bassa levatura, poca cultura, a parte gli obbligati e un manipolo di direttori di musei e sovrintendenti assortiti. Un po’ di sempreverdi, dalla Vanoni alla Aspesi, passando per Enzo Miccio e Dvora.
Prima dell’opera, l’inno d’Italia, poi qualcuno grida “No al fascismo!” e “Viva la Resistenza!” Altri applaudono e comincia la musica. Cantanti e coro appaiono subito la cosa migliore dello spettacolo. Trionfo personale per Anna Netrebko e Luca Salsi. Sostegno a Michele Pertusi, colto da malore nel secondo intervallo, che prosegue coraggiosamente fino alla fine. La regia di Lluis Pasqual invece delude: la monumentale e mutevole installazione, che richiama l’alabastro delle chiese spagnole, risulta fredda e ingombrante e gli interpreti vi appaiono sperduti e privi di senso. La scena dell’autodafé risulta a tratti addirittura grottesca, con gli eretici che saltano da soli in una stilizzata voragine, che alla fine si incendierà. Pareri alterni su orchestra e direzione, apparse a tratti appannate. Alla fine delle quasi 4 ore di musica, i politici sfilano via velocemente, verso le cene di gala. Solo i loggionisti continuano a discutere ancora un po’, prima di salutarsi nella notte di S.Ambrogio, fredda e bella, come qualche volta accade a Milano.
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Ira Rubini
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