![Pachinko](https://www.radiopopolare.it/wp-content/uploads/2022/04/Pachinko.jpg)
Agli ultimi Grammy Award, i più importanti premi musicali dell’industria discografica statunitense, gli ospiti più attesi erano i BTS, la boyband coreana che, al momento, è indiscutibilmente il fenomeno pop più di successo al mondo. La serie tv più vista e chiacchierata dello scorso anno è stata Squid Game, la distopica metafora del tardocapitalismo ideata e diretta dall’autore sudcoreano Hwang Dong-hyuk.
Solo due anni fa – anche se, a causa della pandemia, sembra passato un secolo – il film Parasite di Bong Jong-ho faceva la storia portandosi a casa quattro statuette importantissime, e per la prima volta il premio per il miglior film andava a un’opera non in lingua inglese. E anche agli Oscar dell’anno scorso ha ricevuto candidature e premi un film insieme coreano e americanissimo: Minari, la storia di una famiglia proveniente, appunto, dalla Corea, che cerca il Sogno americano nell’Arkansas degli anni 80.
Pure uno dei reality show di maggiore successo globale, con svariate versioni nazionali, cioè Il cantante mascherato, è stato inventato in Corea del Sud. Chi conosce lo stato asiatico sa quanto la sua cultura sia stata influenzata dall’Occidente e in particolare dagli Stati Uniti, ma si potrebbe dire che negli ultimi anni il vento abbia iniziato a soffiare nella direzione opposta: è la produzione pop coreana a dominare quella del resto del mondo (del resto, ricordiamo quello che disse Bong nel 2020, in una battuta che, da sola, decolonizzava un intero immaginario: «D’altronde, gli Oscar sono dei premi locali»).
Ultima in ordine di tempo, arriva su AppleTV+ la miniserie Pachinko, tratta dal bestseller Pachinko – La moglie coreana della scrittrice Min Jin Lee (in Italia edito da Piemme): niente di più lontano dalle atmosfere survoltate, ansiogene e ultra contemporanee di Squid Game, ma lo stesso un titolo da non perdere. Innanzitutto per lo sforzo – e lo sfarzo – produttivo: la vicenda attraversa sette decenni e due continenti, tra gli anni 10 e gli anni 80 del Novecento, e la ricostruzione storica, tra location e costumi, è degna di un kolossal cinematografico.
Pachinko è una serie corale – come sottolinea anche la bellissima e trascinante sigla – ma il personaggio che fa da filo conduttore, e spesso da punto di vista, è Sunja: nata negli anni 10 in un villaggio di pescatori, sin da piccolissima assiste agli orrori dell’oppressione giapponese, che proprio in quegli anni trasformano la Corea in una colonia del loro impero. Cresciuta, Sunja emigrerà in Giappone e darà il via a una discendenza che arriva fino al nipote Solomon, l’altro co-protagonista, giovane ambizioso, che ha studiato a Yale e vissuto negli Stati Uniti, ma che negli anni 80 ritorna in Giappone per ragioni di carriera.
Pachinko si muove attraverso diversi piani temporali, intrecciando il passato della giovane Sunja con il “presente” (cioè il 1989) di Solomon, nel quale Sunja, ormai anziana, è interpretata da Youn Yuh-jung, star del cinema coreano che proprio l’anno scorso ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo della nonna in Minari. A dirigere la serie, e anche questo è un dettaglio interessante, ci sono Kagonada e Justin Chon: statunitensi di origini coreane, il primo è uno dei più apprezzati autori di videosaggi contemporaneo, acclamato per i suoi lavori di critica visuale pubblicati online; il secondo – attore, regista, modello, musicista – è ugualmente famoso come personalità di YouTube.
La provenienza dal mondo del web dei due registi, però, non deve dar adito a snobismi: Pachinko, che è scritto e coordinato dalla sceneggiatrice Soo Hugh, ha il respiro epico delle grandi storie intergenerazionali, ed è graziato da un ottimo cast, da una confezione curatissima ed evocativa, da una trama coinvolgente e dal tono che unisce affresco storico e intimità familiare. Molto interessante, poi, il suo trilinguismo, che vede il giapponese e il coreano alternarsi continuamente (i sottotitoli adottano l’azzurro per il primo e il giallo per il secondo), oltre a diversi dialoghi in inglese, sottolineando quanto della propria storia e
identità passi dalla parola, dalla comunicazione, dall’espressione, dall’incontro con l’altro.