Titolo: “La nostra cruda logica”. Sottitolo: “Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati”. Il libro prodotto dall’ong israeliana Breaking the Silence (Rompere il silenzio) esce anche in italiano, per Donzelli Editore (30 euro) dopo l’edizione in ebraico e in inglese.
Chi vuole sapere cosa accede quotidianamente nei territori occupati, il ruolo dei coloni, come funzionano i check point, come si comportano i militari durante una perquisizione, un attacco, durante le lunghe ore a montare la guardia, ebbene: qui trova tutto, raccontato dalla voce di chi ha vissuto quelle esperienze in prima persona.
Si tratta di storie di “ordinaria” violenza. Ordinaria perché “normale” per chi la compie, non certo per le vittime. Si tratta di abusi ingiustificati contro civili palestinesi innocenti, spesso scelti a caso perché erano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Violenza che scaturisce dall‘arroganza, dall’abitudine, dalla noia. Una brutalità senza senso e senza limite, con lo scopo di terrorizzare, umiliare, intimorire, fiaccare ogni volontà di resistenza.
I soldati che parlano sono quei pochi – rispetto alla massa – che hanno sentito il bisogno di raccontare il loro straniamento, il loro disagio, a volte rimorso. Protetti comunque dal fatto di essere anonimi. Molti di quelli confessati – infatti – sono crimini che potrebbero finire di fronte a una corte internazionale, se mai ce ne sarà una che si occuperà di quanto accade in Cisgiordania e Gaza.
Breaking the Silence, fondata nel 2004 da un gruppo di ex soldati israeliani, ha raccolto nel tempo oltre 700 testimonianze orali. Il libro ne trascrive 145, ordinate in quattro capitoli, i cui titoli danno già un’idea della struttura di questa raccolta.
– Prevenzione: l’intimidazione della popolazione palestinese
– La separazione: controllo, espropriazione e annessione
– Il tessuto vitale: l’amministrazione della vita civile dei palestinesi
– L’imposizione della legge: un doppio regime“
Il supporto all’occupazione dei territori palestinesi – sia in Israele che all’estero – si basa sull’idea che la presenza dell’esercito israeliano a Gaza e nella West Bank abbia una funzione protettiva e che lo scopo sia di salvaguardare il paese dal terrorismo” si legge nell’introduzione del libro.
“Le 145 testimonianze raccolte dalla Ong Breaking the Silence raccontano una storia diversa: emerge infatti un intento almeno altrettanto offensivo che difensivo. Nelle loro stesse parole, i soldati rivelano che lo scopo della loro presenza è accelerare l’acquisizione israeliana dei territori, paralizzare la normale vita politica e sociale e, in ultima analisi, contrastare qualunque possibilità di indipendenza palestinese”.
In Israele, Breaking the Silence è stata a lungo attaccata dalla destra. Accusata di fare propaganda, di avere un’agenda politica, di agire contro Israele. Yehuda Shaul è uno dei fondatori del gruppo. La necessità di “rompere il silenzio” la sentì dopo la fine del servizio militare a Hebron.
“Sai, la gente in Israele vuole dormire tranquilla – racconta – non vuole sentire queste cose. ‘Mio figlio ha fatto qualcosa di male? Nooo!’ ‘I nostri militari? Ma di che stai parlando?’ Ogni volta che leggiamo sui giornali il caso di un soldato che ha infranto le regole, che ha usato violenza, che ha ucciso senza ragione, gridiamo subito che è un caso eccezionale, che verrà aperta un’inchiesta. Non vogliamo credere che fare violenza ai palestinesi ai posti di blocco sia una cosa normale. Purtroppo invece è un’equazione matematica: un ragazzino di 18 anni con il fucile in mano più il potere di controllare delle persone uguale abusi e violenze. Non c’è altro risultato”.
Yehuda Shaul, quando parla di Breaking the Silence, parla spesso della sua esperienza personale: “Una volta che prendi coscienza di quello che hai fatto da militare, puoi solo sedere nella tua casa e piangere. Ma questo non porta a nulla. Per me fondare Breaking the Silence è stato prendermi le mie responsabilità. Non posso tornare indietro e annullare quello che ho fatto. Ma posso chiedere un cambiamento alla società intorno a me, visto che l’esercito israeliano è il braccio di questa società civile”.
Breaking the Silence però è stata criticata anche da sinistra, per il fatto che tutte le sue testimonianze vengono vagliate dalla censura militare israeliana, prima di essere pubblicate. “E’ la legge, non possiamo farci nulla”, ribatte l’organizzazione. La quale tutela con grande attenzione l’anonimato dei soldati che decidono di raccontare, anche se hanno commesso dei crimini. Senza la garanzia dell’anonimato – probabilmente – queste testimonianze non esisterebbero. Ad esempio sapremmo poco dell’ordinarietà della procedura detta neighbouring, ovvero: usare i civili palestinesi come scudi umani per andare a perquisire le case dei loro vicini. O lo sapremmo solo dai racconti delle vittime.
E’ anche vero che il silenzio è “rotto” solo in parte da queste testimonianze. Le denunce, spogliate da ogni dettaglio, raccontano delle prassi, piuttosto che fatti situati in un tempo e in un luogo preciso. Parlano soprattutto alla società israeliana, quella che si tappa le orecchie e non vuole sapere. Da parte palestinese, si tratta di una realtà vissuta ogni giorno e tutto è tristemente noto.
Ascolta alcune testimonianze di Breaking the Silence