Il fascino del cinema di Steven Spielberg è quello di riuscire a coniugare film strabilianti e spettacolari per ragazzi, che hanno cresciuto più generazioni e film ad alto contenuto storico/politico alla ricerca di una giustizia umana, fatta soprattutto di buon senso ed equilibrio, riscontrabile in un’America che solo Steven Spielberg è riuscito davvero a rappresentare. Da E.T. a Lincoln, passando da mondi giurassici, intelligenze artificiali, Olimpiadi finite tragicamente, squali, TIR persecutori, liste di Shindler e soldati Ryan, il cinema di Steven Spielberg ha sempre aggiunto qualcosa di nuovo in grado di orientare, e far discutere, milioni di spettatori. Ma oltre a questo, Spielberg convince sempre per le atmosfere che riesce a creare, con una forza suggestiva potente che non lascia mai indietro i sentimenti.
Con Il Ponte delle Spie, Spielberg racconta un episodio accaduto all’epoca della Guerra Fredda e poco conosciuto, ma sintomatico di rapporti viziati tra Stati e Continenti, pregiudizi talmente solidi che ancora oggi esistono, con una diffusione ancora più ampia. L’asse USA-Europa, la paura del comunismo, il rapporto deviato tra spie sono i punti di partenza da cui è partito il regista.
“Mio padre era andato in Russia durante la Guerra Fredda, dopo la cattura di Francis Gary Powers – racconta Spielberg nelle note di lavorazione – e una volta, insieme ad altri tre colleghi della General Electric stava facendo la fila per vedere i resti dell’aereo spia U-2 che i russi avevano messo in mostra per chi volesse vederli e che comprendevano anche l’uniforme da volo e il casco di Powers. La fila era molto lunga, ma a un certo punto due militari russi si avvicinarono a lui e ai suoi amici, chedendo loro i documenti; quando si resero conto che erano americani li portarono all’inizio della fila, non per agevolarli, ma per indicargli i resti dell’aereo e ripetergli più volte con astio: ‘Guardate cosa sta facendo il vostro Paese!’ Poi restituì i passaporti a tutti e quattro”.
Da questa premessa, la scelta di dividere la narrazione del film in due parti geografiche: la prima negli Stati Uniti e la seconda in una Berlino che stava cominciando a costruire il muro divisorio tra est e ovest.
“Non ho mai dimenticato quella storia – ricorda Spielberg – così come non ho dimenticato ciò che è accaduto a Francis Gary Powers. Erano gli anni febbrili della Guerra Fredda, una guerra che non si combatteva con lo scontro fisico, bensì attraverso le parole e la divulgazione di informazioni. In quel periodo, la propaganda anti comunista, i video promozionali della tecnica di autodifesa Duck and Cover (che suggeriva di buttarsi in terra e coprirsi la testa con le mani in caso di attacco nucleare) e il sensazionalismo mediatico intorno a eventi come il processo Rosenberg, non facevano altro che alimentare la paura e l’odio in tutto il Paese, un odio generato dalla paura dell’ignoto. Nessuno poteva dirsi al sicuro ed era certamente il periodo peggiore per sostenere la difesa di una spia russa”.
Ancora una volta è protagonista Tom Hanks, la cui presenza e bravura guida il tono del film. Veste i panni di James Donovan, l’avvocato che cura la difesa di Rudolf Abel, l’uomo arrestato con l’accusa di essere una spia russa. Convinto che chiunque abbia il diritto di essere difeso, Donovan viene mandato dalla CIA a Berlino per trattare lo scambio con il pilota americano catturato dai Servizi Segreti russi.
“Tom Hanks era affascinato dal legame che si sviluppa fra Donovan e Rudolf Abel – continua Spielberg. All’inizio stabilisce un rapporto del tutto professionale con Rudolf Abel, ma al tempo stesso sviluppa anche un rapporto personale con Abel perché si rende conto che è una brava persona, sia dal punto di vista personale che per gli ideali che incarna”.
Nel rievocare e ricostruire un periodo storico cosi importante si nota il tentativo di osservarlo con la giusta distanza, da una parte attualizzando le caratteristiche simili alla situazione geopolitica di oggi, dall’altro immergendolo in una sottile ironia. Per questo la sceneggiatura è stata scritta con la collaborazione dei fratelli Coen.
“Joel e Ethan ci hanno messo in contatto profondo con i nostri personaggi – dice Spielberg. Hanno trasmesso ironia e un pizzico di umorismo sopra le righe, che evoca l’idea che non è il film a essere assurdo, bensì la realtà stessa. Sono dei grandi osservatori della vita reale, come si evince dalle loro opere e il loro approccio caratteristico emerge anche in questo film”.
Ascolta l’intervista a Gabriele Porro, critico cinematografico di Cultweek.