C’è un filo che lega la Cina e gli Stati Uniti alla profonda provincia italiana. E’ il filo della finanza, intrecciato in una trama fittissima, e globale, di vecchie pratiche e nuovi algoritmi per rendere gli scambi e i movimenti di capitale sempre più rapidi.
La grande scommessa, l’azzardo del denaro sregolato, si gioca su più tavoli ma tutti interconnessi: da Shangai ad Arezzo passando per Wall Street. Certo, ci sono differenze tra il mercato azionario cinese e Banca Etruria, tra i colossi finanziari americani (too big to fail) e gli obbligazionisti subordinati italiani (too naïve not to fail).
Ma che cosa li tiene insieme? Memos oggi ne ha parlato con Andrea Baranes, presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Rete Banca Etica e portavoce di Sbilanciamoci.
«E’ una finanza – racconta Baranes – sempre più scollegata dalla realtà. Ci sono sempre più persone che danno ormai per scontato che la finanza sia diventata lo strumento per far soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Mentre la finanza dovrebbe avere un suo ruolo sociale: far incontrare chi ha un risparmio con chi ne ha bisogno per le proprie attività. Abbiamo perso di vista che le borse dovrebbero far proprio questo: io ho dei risparmi e poi c’è un’impresa a cui servono dei soldi per aprire un capannone nuovo; domanda e offerta di soldi si incontrano sulla finanza. Ci siamo dimenticati che la finanza è uno strumento al servizio della società, delle persone, mentre invece è diventato solo scommesse, enormi capitali che girano in millesimi di secondo. Ormai diamo per assodato che la finanza sia questo».
Dal 2008 (dal crack di Lehman Brothers) ad oggi è cambiato qualcosa nel funzionamento dei mercati finanziari?
«No – sostiene Baranes – purtroppo è cambiato poco o nulla. Ogni vertice internazionale, dal G20 in giù, si era chiuso negli anni scorsi con roboanti promesse: “mai più una crisi come quella dei subprime”, mentre tutto ciò che è regolamentazione finanziaria è andato avanti – nel migliore dei casi – col freno a mano tirato. Troppo spesso ci ritroviamo a parlare di bolle, disastri, truffe, crimini. Siamo davanti ad una finanza instabile sempre più grande, sempre più ipertrofica e fuori controllo».
Veniamo all’Italia, al salvataggio delle quattro banche (CariFerrara, Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti) da parte del governo. Il decreto del consiglio dei ministri viene approvato il 22 novembre scorso, una domenica. Prima del governo non dovevano interveniere le autorità di controllo come la Banca d’Italia e la Consob?
«Sicuramente sono arrivate in ritardo – dice Baranes – anche se alcuni rilievi erano stati sollevati. Va detto che sono i meccanismi generali ad apparire abbastanza strani. Mi spiego: quando una banca è in difficoltà gli enti di controllo le chiedono di rafforzare il capitale. Rafforzare il capitale vuol dire vendere più azioni e più titoli che possono rendere la banca più solida. Ma allo stesso tempo ciò significa spingere una banca in difficoltà a piazzare – anche presso i piccoli risparmiatori e investitori – sempre più capitale perchè ne ha bisogno per superare la crisi. E’ un cane che si morde la coda. Alla fine si scaricano sui piccoli risparmiatori, totalmente ignari e ignoranti in ambito finanziario, tutti i problemi accumulati negli anni: magari perché hanno prestato agli amici degli amici o perché il palazzinaro di turno ha aperto delle linee di credito totalmente fuori controllo. Quando le cose vanno male la banca va a rastrellare qualche soldo cercando di piazzare i titoli a chi non capisce nulla di finanza».
Come spiega l’attivismo del governo in tema di banche? Non mi riferisco tanto al decreto sul salvataggio delle quattro banche locali, quanto alla riforma della banche popolari della primavera scorsa e all’annunciato intervento sulle banche di credito cooperativo. Perché tanto attivismo del governo in materia bancaria?
«C’è sicuramente un problema nel sistema bancario. Negli ultimi anni è mancato l’accesso al credito. Chiunque abbia provato a chiedere un mutuo o un prestito se n’è reso conto. Certo è che il problema maggiore del sistema bancario italiano non sono le banche popolari o le banche di credito cooperativo. L’idea che emerge da questi interventi è riconducibile ad un modello a taglia unica, un modello finanziario e bancario che è quello dei grandissimi conglomerati che dominano il mercato. In Italia, invece, abbiamo un modello ancora molto radicato sul territorio che in questi anni di crisi si è comportato molto meglio dei grandi gruppi. Non si capisce perché si debba andare ad inseguire un modello che si sta rivelando fallimentare».
L’intervista con Andrea Baranes prosegue sulle nuove norme europee in tema di fallimenti bancari e sulle possibili alternative: dalla separazione tra banche commerciali e banche d’investimento alla tassazione delle transazioni finanziarie.
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