In Corea, l’anno scorso, il film più visto al cinema è stato “12 dicembre: il giorno”. Racconta la storia vera del colpo di stato militare che nel 1979 portò al potere il generale Chun Doo-hwan, l’ultimo dittatore della Corea del Sud e l’uomo che autorizzò il massacro di Gwangju, nel sud del paese. Dopo più di una settimana di rivolte, che il potere dipinse come istigate dai comunisti, il 18 maggio 1980 migliaia di persone furono uccise e seppellite dall’esercito in fosse civili o nei laghi della regione, mentre altre migliaia furono arrestate e torturate. Per molti, quel massacro, che ispirò le rivolte degli anni successivi culminate nelle riforme democratiche dell’87, fu la “chiave di volta della democrazia sudcoreana.”
Quella che ufficialmente si chiama “Repubblica di Corea” dal 1948 è nei fatti una democrazia giovanissima, di soli 37 anni. Dopo la liberazione dai giapponesi e la fine della guerra mondiale, il paese fu governato con pugno di ferro da Syngman Rhee. Convinto anticomunista, nel periodo della guerra di Corea autorizzò la tortura e soppresse nel sangue le rivolte popolari come quella dell’isola di Jeju, dove morirono tra le 30 e le 60 mila persone. Nel 1960 fu esfiltrato dal paese dalla CIA, che gli evitò il linciaggio da parte degli studenti in rivolta. Seguì un anno di Repubblica parlamentare, rovesciata con un colpo di stato dal generale Park Chung-hee, assassinato nel 1979, e poi di Chun Doo-hwan, di cui parlavamo prima.
Quella di Park è una delle figure più controverse della Corea del Sud. Il suo regime, autoritario e repressivo, è anche visto come quello che ha permesso al paese di uscire dalla miseria e diventare negli anni l’undicesima potenza economica mondiale. Secondo il premio Nobel per l’economia James Robinson, la politica di esportazioni implementata da Park e resa possibile dalla riduzione al minimo dei costi di produzione e dall’accumulo di capitale nelle mani di pochi conglomerati, è alla base dello sviluppo coreano. A partire dagli anni ’70, l’apparato statale si mette totalmente al servizio di queste mega aziende, come Samsung o LG, e non esita a reprimere duramente ogni opposizione politica e sindacale. Sarà solo l’alleanza inedita tra media borghesia, classe operaia e studenti a fine anni ’80 a costringere il potere a mettere via il manganello, dando il via alle prime riforme democratiche.
Non è quindi un caso che, di fronte alla protesta dei sindacati degli ultimi mesi e nell’ottica di far passare a tutti i costi delle riforme che comprendevano tra l’altro di estendere fino a 69 ore la settimana lavorativa, il presidente Yoon Suk-yeol abbia cercato di imitare i suoi predecessori facendo ricorso alla legge marziale. Con la scusa, ancora oggi, di voler salvare il paese dagli infiltrati comunisti nordcoreani. La reazione del paese, attraverso il voto del parlamento, la decisione di polizia ed esercito di non usare la violenza, ma anche le manifestazioni di piazza spontanee e la dichiarazione dello sciopero generale, mostra che le vecchie tattiche non funzionano più.
Con tutti i difetti del caso, quella coreana è una democrazia giovane e in evoluzione ma è una democrazia ormai radicata e i sudcoreani hanno detto forte e chiaro che non intendono fare passi indietro.