Dieci anni fa, nel 2011, andava in onda la prima puntata di Black Mirror: una serie antologica per episodio che nessuno davvero riusciva a catalogare. La parola più usata era “fantascienza”, perché quasi ogni puntata metteva al centro di un racconto disturbante l’evoluzione di una tecnologia, ma le storie di Black Mirror sembravano anche molto più vicine allo spettatore rispetto alla generica proiezione nel futuro che appartiene al genere fantascientifico. Le prime due stagioni, di soli tre episodi l’una più uno speciale natalizio, andarono in onda sul canale britannico Channel 4, poi lo show fu comprato da Netflix, che decise di produrre più puntate: eppure, col passare del tempo, Black Mirror è diventato sempre meno efficace, sempre meno inquietante, sempre meno brillante. Forse la colpa è davvero il passaggio a Netflix, che ha sì aumentato il budget (coinvolgendo anche registi e attori celebri) ma ha anche annacquato certi temi. Un’altra ipotesi, però, è che Black Mirror sia stata raggiunta e superata dalla realtà: oggi, dieci anni dopo, ci viviamo davvero in una distopia, e sempre su Netflix spopolano titoli come The Social Dilemma, che sembrano puntate di Black Mirror e invece sono documentari. Nel frattempo, però, come ogni opera influente, Black Mirror ha aperto un nuovo sottogenere, e negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti seriali che si muovono nei suoi stessi territori, tra ispirazioni inquietanti in stile Ai confini della realtà e critiche preoccupate al nostro presente. Da cult come Mr. Robot alla satirica Weird City di Jordan Peele passando per la splendida miniserie di Russell T Davies Years and Years.
L’ultima arrivata, dal 13 dicembre su Sky Serie, s’intitola Made for Love, è prodotta da HBO e inizia con una donna che sbuca, scarmigliata e scalza, da un misterioso tombino in mezzo al deserto di Joshua Tree. Scopriamo presto che il suo nome è Hazel e che negli ultimi dieci anni non è mai uscita dalla splendida villa ipertecnologica in cui il marito, magnate di una multinazionale high tech chiamata Gogol, l’ha tenuta rinchiusa. La casa stessa, dotata di miriadi d’occhi tecnologici in grado di misurare qualsiasi reazione o variazione nei segni vitali degli occupanti, è una sorta di Grande fratello familiare. Ma quando finalmente tenta la fuga, Hazel scopre una verità ancor più terrificante: il marito Byron le ha impiantato nel cervello, a sua insaputa, un chip che non solo è in grado di localizzarla ovunque, di sentire quello che dice, di ascoltare quel che sente e vedere quel che vede, ma anche di leggere i suoi “dati emotivi”: Hazel è la cavia di un esperimento di “fusione” amorosa, l’evoluzione dei servizi che promettono di trovare l’anima gemella con cui costruire un amore eterno. Protagonista di Made for Love è Cristin Milioti, ottima attrice dagli occhi enormi e dall’espressività unica, che curiosamente era già stata protagonista di un episodio di Black Mirror che con questa nuova serie presenta diverse analogie: s’intitolava USS Callister e raccontava di un programmatore frustrato che riproduceva la coscienza dei suoi dipendenti per poi imprigionarli in una realtà virtuale a misura della sua serie tv preferita, molto simile a Star Trek. In entrambi i casi, è evidente, le serie usano l’espediente fantascientifico per raccontare alcuni aspetti dell’oppressione di genere, la volontà di possedere una donna fino a controllarne ogni singolo movimento, interazione, pensiero. In Made for Love, che comunque ha un tono di dark comedy, a tratti meno angosciante delle puntate più nere di Black Mirror, si aggiunge anche una denuncia all’ansia di iperconnessione e condivisione dei dati della nostra contemporaneità: non possiamo più fare a meno dei nostri telefoni, delle case smart e degli algoritmi che ci “leggono nel pensiero”, ma in cambio di quest’innegabile comodità a cosa abbiamo rinunciato?