La sera di domenica 19 maggio (la notte tra domenica e lunedì qui in Italia) è andato in onda l’attesissimo finale del fenomeno seriale di questi anni dieci: Il trono di spade ha salutato milioni di telespettatori nel mondo, dopo una breve ottava stagione di soli sei episodi che ha segnato dati d’ascolto sempre in crescita, una copertura giornalistica assillante e pervasiva, e – soprattutto – reazioni contrastanti e divise come mai prima.
Una petizione lanciata online per chiedere al canale americano HBO di “rifare l’ottava stagione con sceneggiatori più competenti” è arrivata addirittura a un milione di firme: una richiesta inverosimile, è chiaro (quasi) a tutti, ma sicuramente significativa della grande insoddisfazione che ha accompagnato molti verso il finale. Qualcuno non ha accettato certi colpi di scena, altri non hanno digerito il modo in cui sono accaduti; qualcuno lamenta la sensazione di una chiusura affrettata (anche se superano tutti l’ora di durata, sei episodi sembrano pochi), qualcun altro risponde che sarebbe stato comunque impossibile accontentare tutti, dopo otto anni passati a costruire un universo finzionale sempre più ampio e a intrecciare linee narrative sempre più complesse.
È interessante, perché non è solo la trama a scontentare una parte di pubblico: la prima grande esplosione di sdegno collettivo è avvenuta dopo la terza puntata, quella in cui gli umani sopravvissuti si scontrano con un tremendo esercito di non morti. Una potentissima battaglia notturna che gli autori hanno realizzato guardando all’epicità di Il signore degli anelli e all’ansia di sopravvivenza dei migliori film di zombie, ma che a molti spettatori è apparsa troppo buia, incomprensibile, confusa: si è scoperto poi che la colpa era anche di HBO (e, in Italia, di Sky) per aver diffuso una versione video troppo compressa, e il direttore della fotografia è dovuto intervenire per difendere le sue scelte artistiche. Ma non c’è stata pace: nell’episodio successivo, i fan dallo sguardo acuto hanno individuato una tazza di caffè Starbucks rimasta sul tavolo in alcune sequenze (nonostante l’ambientazione sia medievale), caduta di stile che si è ripetuta anche nel finale, dove appaiono delle bottigliette d’acqua di plastica ai piedi dei lord, un po’ come quando nei peplum degli anni 50 i centurioni romani si tenevano gli orologi al polso. Il team degli effetti speciali, invece di prendersi gli applausi per la creazione dei prodigiosi draghi di Daenerys Targaryen, è dovuto intervenire in fretta e furia per cancellare digitalmente tazze e bottigliette dai video. Nonostante le proteste e le polemiche, si diceva, gli ascolti sono cresciuti episodio dopo episodio, e il finale resterà nella storia come uno dei più visti degli ultimi anni: i numeri sono comunque inferiori a cult del passato, come M*A*S*H o Friends, ma nel frammentatissimo panorama televisivo odierno restano impressionanti.
Ed è proprio qui che risiede, probabilmente, il valore più alto di una serie come Il trono di spade: nel suo essere stato un rito collettivo, probabilmente l’ultimo così trasversale. È anche il momento più emozionante del finale – tranquilli: nessuno spoiler –, quello in cui perfino i personaggi stessi sono costretti a riconoscere che è il potere delle storie che ci raccontiamo l’unico cui non si può evitare di soccombere, l’unico che può ambire a tenerci uniti. Tutto il resto ribadisce l’inevitabilità di ogni serie tv: un racconto concepito per non finire mai, e che dunque quando finisce lascia un sapore dolceamaro. Ma è il viaggio, come sempre, a contare davvero, più di tutto.
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