Sono passati ventisette anni da quando al Vertice della Terra di Rio di Janeiro per la prima volta si parlava di cambio climatico e si lanciava il termine “sostenibile” per indicare il metodo con il quale agire. Ventisette anni nei quali le emissioni di CO2 non si sono ridotte, ma cresciute. Prima era molto facile individuare i responsabili, erano i paesi occidentali nei quali si concentrava l’industria da oltre un secolo, ma la globalizzazione ha mescolato le carte. Non sono più gli Stati Uniti i primi produttori di gas serra, ma la Cina. La fabbrica del mondo ha aumentato le sue emissioni dal 1994 ad oggi del 175%, caricandosi delle emissioni dei paesi che hanno delocalizzato le loro fabbriche. Anche l’India è balzata tra i paesi in testa perché in Asia il carbone, la principale fonte di emissione di gas serra, viene ancora usato massicciamente per produrre elettricità.
L’aumento della consapevolezza delle ragioni del cambiamento climatico è stato frutto di campagne di informazione, ma soprattutto dei dati forniti dalla scienza. L’aumento delle temperature medie del pianeta è causato dalle attività umane oppure si tratta di un normale ciclo climatico? Per lunghi anni le posizioni erano quasi equivalenti, ma sono state le Nazioni Unite, istituendo il Panel sui cambiamenti climatici a fornire le prove che l’ipotesi giusta era quella che individuava nell’uso dell’energia fossile la causa dell’aumento della temperatura. I negazionisti sono oggi una ristretta minoranza che gode della stessa credibilità scientifica dei terrapiattisti, ma le conclusioni non sono mai state assunte seriamente dalla politica.
Nel 1997 è stato redatto il Protocollo di Kyoto, che impegnava i soli paesi di vecchia industrializzazione a ridurre le emissioni, successivamente superato dagli impegni dell’Accordo sul clima approvato durante la Conferenza delle Parti di Parigi nel 2015 che per la prima volta impegna tutti gli stati della terra. Il clima è stato l’unico terreno multilaterale in questi anni di ritorno ai rapporti di potenza. E per quale motivo, malgrado i grandi sforzi fatti soprattutto nei paesi di vecchia industrializzazione, la febbre della terra non cala? Il motivo resta sempre quello del modello di sviluppo.
La globalizzazione ha democratizzato i consumi nel mondo, aumentando tantissimo le possibilità concrete di acquistare e consumare merci laddove prima si viveva in economie agricole di sopravvivenza: plastica, metalli, legname, chimica, automobili ma soprattutto tanto petrolio, gas e carbone in più per produrre le merci per centinaia di milioni di persone che hanno cominciato ad affacciarsi al mondo dei consumi, rendendo prepotentemente d’attualità la teoria dei limiti dello sviluppo emerso dal rapporto del Club di Roma del 1972. Lo sviluppo non può essere infinito per la limitatezza delle risorse non rinnovabili, e nemmeno può essere alimentato solo con l’energia fossile. La chiave di svolta sta nella qualità e nella sostenibilità dello sviluppo.
La protesta dei ragazzi in tutte le piazze del mondo è l’ennesimo campanello d’allarme che ciclicamente è suonato a vuoto in questi ventisette anni. Il mondo è ancora ostaggio di un modello energetico primitivo mentre ci sarebbero tutte le conoscenze tecniche per sostituirlo. Troppe fortune e troppi poteri sono stati costruiti attorno all’industria energetica perché cambi da sola. Per questo i cittadini del mondo devono fare sentire la propria voce manifestando, e soprattutto riconvertendo l’economia a criteri di sostenibilità a partire dai propri consumi. Non sarà solo una ragazza, per quanto coraggiosa, a salvare il mondo, ma una nuova coscienza globale. Perché questa oggi è la battaglia più urgente per il futuro della terra.