“Il punto di partenza di La casa delle estati lontane è l’idea che la pace può avere inizio solo quando si conosce e si occupa il posto giusto. Avere dei fratelli o delle sorelle è una ricchezza: può essere un’esperienza divertente e leggera, ma può anche capitare di vivere atti di violenza e di sentirsi feriti. A volte è una guerra, una guerra di luoghi. Tra fratelli o sorelle si è costretti a condividere, ma i primi conflitti iniziano con la frase: «È mio!»”.
Spiega così la regista israeliana Shirel Amitai il senso del suo film. Israeliana di nascita e di affetti, ma trapiantata in Francia, lavorando al fianco di registi come Jacques Rivette e Claire Simon, e dove ha trovato chi ha prodotto questo suo primo film.
La pace è il filo rosso che unisce la storia di tre sorelle, che hanno ricevuto in eredità il casolare della loro infanzia, situato ad Atlit, in Israele. Tutte e tre, interpretate dalle brave attrici Géraldine Nakache, Judith Chemla e Darel Yaël Abecassis, si ritrovano sotto lo stesso tetto a distanza di anni per organizzare la vendita della casa. Un’occasione per confrontarsi, piangere e ridere, avvolte dai fantasmi e dai ricordi di chi l’ha preceduta.
Non a caso il film è ambientato a cavallo dell’assassinio di Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre del 1995, quando ogni speranza e sogno di pace è svanito nel nulla: “E’ il momento più sentito e nello stesso tempo fantastico. Volevo che il film fosse iper-realistico, ma che proprio in quel momento in cui la realtà fa una vera e propria incursione che segnerà una data indimenticabile, il 4 novembre 1995, riceviamo un’iniezione di irrealtà. Come ogni choc, questa notizia viene vissuta come una sospensione nel tempo, un galleggiamento, una forma di anestesia”.
La regista definisce La casa delle estati lontane un film politico: “La storia delle tre sorelle, del loro rispettivo posto, dei loro conflitti, possono effettivamente estendersi e portarci a parlare di Israele e della Palestina. Ogni nazione ha bisogno di avere un suo territorio delimitato da confini chiari e precisi. Anche all’interno di una famiglia bisogna sapere porre dei limiti. Lo spazio chiuso mi interessava anche perché avevo voglia di raccontare l’incontro a distanza di anni di queste tre sorelle in un luogo e un tempo unici senza che si sappia troppo delle loro vite. Quello che avviene in quella decina di giorni avviene soltanto lì”.
Il film alterna malinconia e divertimento, rabbia e sollievo, in più si affida al fantastico e all’invisibile: “Avevo voglia di mettere sullo stesso piano la realtà e tutto quello che portiamo con noi di invisibile. Il vissuto, le fantasie, i sogni abitano tutti insieme e partecipano attivamente a quello che viviamo costantemente. I genitori, l’asino e il bambino palestinese emergono perché sono evocati dalle sorelle e quindi prendono forma, appaiono e scompaiono a loro piacimento. Quando questo invisibile si mescola alla realtà crea confusione, nel caso dei genitori è gioioso, nel caso del bambino palestinese è più grave. Lo spazio chiuso concede questa libertà che permette un universo nel quale il visibile e l’invisibile coesistono senza frontiere”.
Ascolta qui l’intervista a Shirel Amitai