Se si dovesse scommettere sul futuro dell’affirmative action da quello che è successo in una corte di Washington, il giudizio non potrebbe che essere poco rassicurante – almeno per chi in questi anni ha sostenuto le azioni positive, quell’insieme di regole e leggi fatte per promuovere opportunità ed eguaglianza.
La corte di Washington non è d’altra parte un’aula come tutte le altre, ma la Corte Suprema degli Stati Uniti, che sta in queste ore esaminando un caso legato all’affirmative action. Quello di Abigail Fisher, una ragazza che ha portato in tribunale la University of Texas dopo che la sua richiesta di ammissione fu respinta nel 2008.
La Fisher, che è ora una laureata della Louisiana State University, dice che l’ammissione le fu rifiutata per via della sua appartenenza etnico-razziale. In altre parole, perché la ragazza è bianca. Nelle pratiche di ammissione, l’università avrebbe dunque preferito ad Abigail uno studente nero, considerando non i voti ma il colore della pelle.
La University of Texas non ha mai negato l’addebito. Il suo sistema di selezione prevede infatti che un primo scaglione di ammessi – il 10% del totale – venga scelto sulla base della pura considerazione dei voti. Per il resto, sono utilizzati parametri diversi, come cultura scolastica, capacità di leadership, circostanze familiari. E, appunto, race, appartenenza razziale.
Nella scelta dell’università texana non c’è niente di strano. Sono molte le istituzioni scolastiche, di ricerca, del governo e del mondo del lavoro, che a partire dagli anni Sessanta hanno messo a punto politiche che cercano di tutelare la diversità – e di risarcire al tempo stesso alcuni gruppi del pregiudizio e della discriminazione sofferta per secoli.
Lyndon Johnson, il presidente durante il cui mandato alcune delle politiche di affermative action vennero modellate, disse nel 1965: “Tu non prendi una persona che, per anni, è stata immobilizzata con le catene, la liberi, la porti al punto di partenza di una gara, le dici ‘ora sei libero di competere con gli altri’, per poi pensare che la competizione sia davvero giusta”
Il fatto è che quell’aspirazione originaria, con gli anni, si è persa e il passato più recente è stato segnato da diversi tentativi di scardinare i principi delle azioni positive. L’ultimo assalto è stato quello del 2003, quando la Corte difese – ma con un margine strettissimo, cinque giudici contro quattro – il diritto della Michigan Law School di promuovere nelle sue classi “la diversità”.
In questi dodici anni le cose sono cambiate ancora, e il pendolo della storia si è ulteriormente allontanato dall’ispirazione che mosse gli architetti dell’affirmative action. La battaglia repubblicana contro questo complesso di regole, principi, norme si è fatta sempre più feroce. Nello stesso tempo, nella società si è diffusa una certa insofferenza nei confronti del “pregiudizio positivo”.
La conclusione del processo la si può contemplare in questi giorni alla Corte Suprema. Abigail Fisher denuncia la University of Texas, che avrebbe, escludendola, violato il Quattordicesimo Emendamento e l’Equal Protection Clause. Il fatto è che la ragazza trova nei giudici, soprattutto nei cinque di orientamento conservatore, un ascolto e un’udienza particolare.
Significativo, da questo punto di vista, è stato quanto detto dal giudice Antonin Scalia, forse il più a destra tra i nove giudici della Corte. E’ davvero di beneficio far entrare gli studenti neri alla University of Texas “dove non ottengono buoni risultati, invece che farli iscrivere a scuole meno buone?” si è chiesto Scalia. Secondo il giudice, sarebbe anzi meglio far dirottare i neri verso le stesse “scuole meno buone, dove non si sentono sotto pressione perché non riescono a star dietro alle richieste”.
Sono affermazioni che sicuramente solleveranno polemiche, e lo sdegno di motli gruppi che difendono le pari opportunità. Ma sono affermazioni che – sia pure in modo meno estremo e polemico – sono condivise da altri giudici della Corte. “Qualcuno mi deve spiegare quale tipo di unicità, di prospettiva particolare, uno studente nero porta a una classe di fisica” si è chiesto il presidente della Corte, John Roberts.
Il giudizio sembra, a questo punto, sospeso. La sentenza nel caso, che potrebbe davvero far crollare l’intera architettura dell’affirmative action negli Stati Uniti, arriverà nei primi mesi del 2016. Per ora resta l’impressione che la maggioranza della Corte sia orientata a dare ragione alla giovane Abigail, e torto alla University of Texas. Proprio l’avvocato dell’università, da parte sua, ha spiegato quale sarà l’inevitabile esito di una sentenza sfavorevole all’istituzione. “Se non potremo più considerare la race come motivo di selezione, il risultato sarà uno solo: il crollo nelle presenze di studenti neri in università”.