Di un panorama mediale in trasformazione ci accorgiamo in questi giorni, mentre il Ministro dei Beni Culturali firma un decreto che impone il rispetto di un lasso di tempo fisso tra il momento in cui un film arriva nelle sale e quello in cui può approdare su una piattaforma streaming.
La polemica ha infiammato i festival cinematografici: prima Cannes, dove il direttore Fremaux ha rifiutato di mettere in Concorso film che non sarebbero stati distribuiti in sala e quindi ha dovuto rinunciare a titoli Netflix anche nelle altre sezioni; poi Venezia, dove il direttore Barbera ha invece accolto la piattaforma a braccia aperte, facendo man bassa di film attesi e assistendo poi alla consegna del Leone d’oro proprio a un film Netflix, Roma di Alfonso Cuarón.
Pochi giorni dopo la fine del festival lagunare, Sulla mia pelle – sulla vicenda di Stefano Cucchi – veniva diffuso contemporaneamente su Netflix e in poche sale: molti esercenti infuriati si sono rifiutati di programmarlo, ma i pochi che l’hanno fatto hanno visto una partecipazione quantitativa ed emotiva che al cinema italiano mancava da un bel po’, e il film ha segnato un’altissima media spettatori/sala, che nemmeno le cosiddette “proiezioni pirata” hanno scalfito.
Ed ecco ora il decreto, che comunque avrà effetto – sempre che ne abbia davvero – solo sui film italiani. Cosa succederà davvero – scompariranno le sale cinematografiche? Morirà la tv tradizionale? – non è una facile previsione, perché l’audiovisivo è in un’imprevedibile fase di mutazione: a testimoniarlo sono anche i contenuti, come ad esempio La ballata di Buster Scruggs, su Netflix (appunto) da venerdì 16 novembre.
Oggi, La ballata di Buster Scruggs è l’ultimo film dei fratelli Coen: presentato alla Mostra di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, non vedrà il buio delle sale, se non in qualche teatro americano dove verrà proiettato per aderire alle regole necessarie a concorrere all’Oscar. Ma, prima di essere un film, per almeno due anni La ballata di Buster Scruggs è stata “la prima serie tv dei fratelli Coen”: del progetto si parlava in questi termini, accendendo entusiasmi nei fan sia del piccolo sia del grande schermo.
Il risultato finale, ora, è un film a episodi, scollegati tra loro ma tenuti insieme dall’ironia nera coeniana, che si diverte a sovvertire e smantellare uno dopo l’altro i miti western della Frontiera. Avrebbe potuto tranquillamente essere una serie antologica (e infatti nulla escluderebbe un’ipotetica “parte 2”); è girato in digitale (anche questa una prima volta per i Coen), ma ha un respiro inconfondibilmente cinematografico, soprattutto nei totali sui panorami del vecchio West, e anche nel cast, in cui figurano James Franco, Liam Neeson, Tom Waits, Zoe Kazan e Brendan Gleeson.
Insomma, se c’è un caso in cui la differenza tra cinema e televisione, tra schermi grandi, piccoli e piccolissimi è ingarbugliata come un’inestricabile matassa, questo è La ballata di Buster Scruggs. E solleva il dubbio che, forse, applicare un’etichetta di questo tipo non è la cosa più importante; l’importante è che progetti come questi vengano effettivamente visti.
Dal 2 novembre, sempre su Netflix, c’è l’ultimo film di Orson Welles, The Other Side of the Wind, una sorta di Santo Graal cinefilo, un’opera imprendibile e sperimentale, che si pensava non avrebbe mai visto la luce e che invece è stata portata a termine da Peter Bogdanovich grazie ai finanziamenti di Netflix. L’avete visto? Il 14 dicembre sulla piattaforma arriverà Roma, il bellissimo Leone d’oro in bianco e nero di Cuaron: lo guarderete? Perché qui sta il nodo più rischioso, e dipende anche da noi: un film senza un pubblico a guardarlo diventa invisibile, indipendentemente dallo schermo che lo ospita.