Il concorso di Venezia 73 si è chiuso con le immagini buffe e surreali di Emir Kusturica. In On the milky road, il regista serbo ritorna all’epoca del conflitto nella ex Jugoslavia in un villaggio dell’Erezegovina. Uno dei tanti luoghi che Kusturica ha rappresentato nei suoi film, in cui ci sono poche case, pochi abitanti che si conoscono tutti, luoghi fermi nel passato e senza tempo ma che a un certo punto vengono coinvolti dai bombardamenti o da imboscate. Qui Kusturica è anche attore, nei panni di Kosta, un po’ svanito dopo aver assistito allo sgozzamento dei genitori, che trasporta il latte su un asino, considerato capriccioso e strano dai concittadinee tollerato per quieto vivere. Ha una fidanzata, sorella di Zaga (Predrag Manojlovic), un generale che torna per sposare una straniera fatta arrivare lì per il matrimonio, dopo una storia drammatica alle spalle. La straniera, interpretata da Monica Bellucci che recita in serbo, si innamora di Kosta, creando scompiglio nel villaggio.
Sono passati 27 anni da quel Leone d’Oro ricevuto per Ti ricordi di Dolly Bell?, film che impose Kusturica nella cinematografia internazionale a cui seguirono: la Palma d’Oro a Cannes per Papà è in viaggio d’affari (1985) e quella per Underground dieci anni dopo. Il Premio per la miglior regia a Venezia per Il tempo dei gitani (1989) e il Leone d’Argento per Gatto nero, gatto bianco, nove anni dopo.
La filmografia di Kusturica è costellata di premi ed è forse per questo che la critica non riesce a perdonargli i film meno riusciti. Come questo On the milky road che illude nella primissima parte del film di aver trovato il grande Kusturica, ma che nella seconda si perde in un pasticcio, tra romanticismo poco credibile e fuga dalla guerra.
A questo si aggiunga la sua vicinanza a Putin, che non ha mai nascosto e che gli sono costate l’esclusione dall’ultimo Festival di Cannes, che lo ha sempre accolto senza riserve e a cui partecipò l’ultima volta con il sorprendente documentario Maradona. dedicato a un altro personaggio un po’ maledetto come lui.
Discorso differente per Lav Diaz, regista filippino noto per i suoi film di durate chilometriche anche di otto, nove ore come A lullubay to the Sorrowful Mystery passato a Berlino, From what is before che vinse il Pardo d’Oro a Locarno o Death in the land of encantos premiato a Venezia. Però rimane una cinematografia frequentata da quel che resta dei cinefili. Peccato, perché meriterebbe più conoscenza e attenzione.
In The woman who left, presentato in concorso, sfiora il tetto delle quattro ore. Lunghezze che per chi assiste a un film di Lav Diaz rappresentano una vera e propria esperienza. Qui racconta la storia di una donna uscita dal carcere dopo trent’anni, perché scoperta innocente. Diaz racconta il suo ritorno alla vita quotidiana, alla ricerca della famiglia perduta nel tempo, il conforto della vecchia abitazione. Tutto questo nella periferia di Manila nel 1997, quando la città era diventata la capitale asiatica dei sequestri. Piani sequenza lunghissime, immagini profonde, personaggi disperati che solidarizzano tra loro, in un bianco e nero che abbaglia chi guarda.