Kurt Vile (è il suo vero nome, non una storpiatura) si è fatto conoscere prima come membro dei War On Drugs (fino al 2011), poi, soprattutto, come artista solista. Il suo ultimo disco è una raccolta di canzoni più intime e scarne rispetto alla sua produzione abituale, un album notturno, come lo definisce lui stesso. Qualche giorno fa è stato ospite degli studi di Radio Popolare per un minilive e un’intervista. L’intervista la potete leggere qui di seguito. Il minilive (insieme anche alla nostra conversazione) lo trovate invece da ascoltare in fondo all’articolo.
Grazie di essere qui con noi a MiniSonica per presentare il tuo nuovo album B’lieve I’m going down. Raccontaci subito qualcosa del modo in cui ti sei messo al lavoro su queste canzoni nuove.
KV: più o meno sempre per fare un disco parto da un nucleo di canzoni che ho scritto precedentemente con la chitarra. In questo caso c’erano anche alcune canzoni scritte al banjo, una sola si trova sul disco finito, e poi ho scritto un paio di pezzi al pianoforte, cosa che non facevo da molto tempo. In generale quando entriamo in studio per registrare mi piace lasciare aperta la strada all’improvvisazione, senza che si debba per forza definire tutto: anche se ovviamente gli accordi sono scritti in un certo modo, poi ci sono molti modi per suonare lo stesso accordo. Mi piace che le possibilità siano tante. In questo caso credo che il risultato sia un disco scarno, sognante, con un suono piuttosto metallico. Sono elementi che c’erano anche precedentemente, ma che questa volta sono più evidenti. Negli anni credo anche di essere migliorato come chitarrista e questa volta di essermi impegnato maggiormente nella cura dei testi. Fondamentalmente ci ho messo molte più parole.
Sono cose separate quindi per te la scrittura delle canzoni e la loro registrazione?
KV: no, spesso in realtà i due momenti si sovrappongono. Certamente quando vado in studio parto da un nucleo di canzoni che ho scritto prima, e che mi piacciono. Però poi quello che succede è che l’ispirazione che ho quando sono in studio a lavorare è sempre piuttosto forte, quindi mi capita di scrivere diversi pezzi quando siamo già in studio e diventa importante catturare il momento. Cerco di non pensare mai troppo, mi capita di farlo solo quando mi sto annoiando ed è troppo tempo che non suono. Altrimenti mi lascio trasportare dall’onda del momento.
Questo lavoro più approfondito sui testi invece è venuto da una tua esigenza razionale di metterci più impegno o è stata una cosa spontanea?
KV: credo semplicemente di essermi sentito ispirato a lavorarci di più. Non voglio dire che prima i miei testi non andassero bene o che li facessi con poco impegno. Penso solo che sia naturale che crescendo e maturando anche le parole che scrivi abbiano lo stesso tipo di crescita.
Prima dicevi che avevi scritto delle canzoni al banjo che non sono finite sul disco. Le canzoni che non usi per un album le butti via o le tieni da parte per il futuro?
KV: mi piace provare molte canzoni in studio. E poi non è difficile capire su quali insistere e su quali no, lo capisco subito se una canzone è buona.
Anche per questo disco, così come per i precedenti, hai registrato in diversi studi in giro per gli Stati Uniti. Come mai preferisci girovagare piuttosto che chiuderti in un unico studio?
KV: mi capita di farlo da qualche disco a questa parte, perché mi succede spessodi entrare in studio per registrare qualche pezzo, ma poi di sentire il bisogno di fermarmi: a quel punto quando poi riprendo devo per forza trovarmi un altro posto. In Smoke ring for my halo abbiamo lavorato quasi solo sulla east coast, avendo come base principale lo studio di J Mascis a Boston. Per Waking on a pretty daze invece sono andato sulla west coast, per lavorare con Dave Sher e Stella Mozgawa che vivono lì. Preferivo andare io nel loro ambiente, piuttosto che fare venire loro da me, mi sembrava meglio provare ad avere una prospettiva differente. L’approccio è stato lo stesso per questo disco, stavolta sono andato ad Athens, perché lì aveva lo studio un mio amico, New York e Philadelphia perché lì vivono degli elementi della band, e poi ancora a Los Angeles per lavorare con Stella e Dave.
Sei anche stato a registrare in uno studio vicino a Joshua Tree, vero?
KV: sì, avevo sentito dire grandi cose di quel posto, ed era abbastanza vicino a Los Angeles per potersi permettere di andare fino a lì per assaporare questa specie di energia cosmica. Ed in effetti è un posto pieno di magia.
I posti in cui ti capita di visitare nei tuoi viaggi ti ispirano in qualche modo anche musicalmente?
KV: sì, certo, credo che sia normale. Anche se non si tratta mai di ispirazioni letterali, tipo: “sono nel deserto che cavalco, oppure seduto su un cactus”. Ma le ispirazioni ci sono e si sentono.
E per questo disco se non sbaglio hai anche collaborato con i Tinariwen, un gruppo che è forse piuttosto difficile da accostare alla tua musica…
KV: sì, in effetti è stata proprio la loro presenza nello studio di Joshua Tree a convincermi ad andarci, perché volevo assolutamente incontrarli e suonare un po’ con loro. Così prima sono stato lì da solo, suonando per una settimana con loro, poi la settimana successiva sono arrivati anche gli altri della mia band e abbiamo proseguito le registrazioni del mio album. Suonare con i Tinariwen è stato stupendo, mi hanno insegnato molte cose: il primo giorno mi hanno fatto suonare questi splendidi pezzi midtempo, poi però il giorno dopo mi hanno chiesto si registrare un brano decisamente troppo veloce per le mie dita, così lì ho fatto cilecca. Ma il giorno ancora successivo abbiamo cambiato pezzo e mi sono trovato meglio. Comunque lavorare con loro è stato piacevole e divertente.
Per un chitarrista immagino che stile dei Tinariwen sia piuttosto interessante…
KV: assolutamente sì, sono davvero grandissimi con quello strumento, hanno soprattutto una velocità nelle dita pazzesca. Io non posso proprio competere con loro su quel campo, mi piace suonare la chitarra e credo di essere un buon musicista, ma ho uno stile completamente diverso, molto più legato al blues e al folk.
Qual è il tuo rapporto con la chitarra? Prima dicevi di pensare di essere diventato negli anni un chitarrista migliore: che tipo di lavoro fai per ottenere un risultato come questo? Sei uno che si allena come un atleta, suonando ogni giorno un certo numero di ore?
KV: diciamo che tendenzialmente non amo fare gli esercizi classici legati alla chitarra, fare scale e accordi e cose così. Il mio allenamento viene dal prendere in mano costantemente la chitarra, lavorare sui riff e sugli accordi, fino a che non viene fuori una progressione che, se mi piace, diventerà poi una canzone. Preferisco che una cosa del genere succeda in modo spontaneo.
Hai detto che questo è un disco notturno…quali sono i tuoi dischi notturni preferiti?
KV: Tonight’s the night di Neil Young, i dischi degli Stones della metà degli anni settanta, come Sticky fingers: li registravano anche nel cuore della notte, perché era quando facevano…festa.
Questo risultato un po’ diverso dai dischi precedenti era l’obiettivo che volevi raggiungere quando sei entrato in studio di registrazione?
KV: per niente, mi aspettavo qualcosa di completamente diverso. Pensavo che il suono del disco sarebbe stato molto più grosso e potente, poi però è venuto naturale seguire un’altra strada. E’ successo quando, come ti dicevo, mi sono messo a scrivere le canzoni in studio. Allora il suono che volevo per l’album si è rivelato in modo chiaro. Abbiamo tolto molti strati che avevamo inizialmente provato a mettere sulle canzoni, sembrava quasi di barare, con tutti quei suoni.