“I challenged him to get 50 and the motherfucker got 60”.
Il commiato più originale, e il meno traducibile, è giunto dall’alleato più valido e al contempo il rivale più agguerrito di tutta la sua carriera: Shaquille O’Neal. Che, con la consueta ironia, ha raccontato cosa è stato Kobe Bryant, leggenda del basket americano che ieri, a due passi dagli Studios losangelini, ha recitato il suo ultimo atto.
Un agonista senza precedenti, ossessionato da ogni sfida che il parquet gli ha rivolto in venti anni di professionismo.
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Un egomaniaco, dicono i detrattori, che non sono stati pochi in questi anni. E hanno parte di ragione, come dimostra un’ultima partita irreale contro gli Utah Jazz nella notte: 60 punti con 50 tiri campo in 42 minuti, cifre senza senso.
Nel rapporto tra chi lo ama e chi lo ha odiato Kobe è diventato il numero uno, tra i più vincenti di sempre con i suoi 5 anelli e con prestazioni individuali irraggiungibili per i mortali.
In questi anni gli odiatori lo hanno esaltato, così come le sfide con i grandi campioni che per due decenni hanno provato a fermarlo.
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Le speculazioni sul suo ruolo nella storia della lega americana non hanno valore, il paragone con Jordan o chiunque altro lascia il tempo che trova. Lascia l’agonismo Kobe Bryant e ogni eventuale definizione è contenuta in quel nome. E il suo dolore è il nostro al pensiero di non vedere più quella palla uscire dai suoi polpastrelli.
Kobe Bryant, che parla ancora un discreto italiano, è anche un orgoglio del basket di casa nostra. Lui, nato 38 anni fa a Philadelphia, è figlio di Joe detto Jelly Bean, ex giocatore del nostro campionato tra l’84 e il ’91. Nella penisola, tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, Kobe ha iniziato la sua ascesa, che non si è mai interrotta. E, nonostante fosse un bambino, ha lasciato il segno.
Come racconta l’amico di infanzia ed ex compagno ai tempi di Reggio Emilia Christopher Ward, intervistato da Lorenza Ghidini e Gianmarco Bachi.
“I presupposti c’erano tutti: da bambino era la scala ridotta di quello che è oggi. Si capiva già, il potenziale c’era tutto. Da lì a diventare leggenda, ce ne passa”. Dalle giovanili alle Cantine riunite di Reggio Emilia, Kobe ha spiccato il volo. Nonostante questo, però, l’amico Christopher ci confessa di preferirgli qualcun altro: “Il fattore amicizia, per me, è quello superiore a quello di Black Mamba (uno dei soprannomi di Kobe, ndr). Essendo abbastanza piccolo, ho avuto sempre come idolo assoluto un altro campione di qualche anno fa: Allen Iverson. A Kobe l’ho sempre detto. E assolutamente non gli è mai piaciuto particolarmente tutto questo…”. Christopher lascia intendere che nel futuro del campione c’è anche l’Italia. Ma non ha svelato in che forma.
Ascolta l’intervista a Christopher Ward