Eve Polastri è una quarantenne inglese, vive a Londra, ha un marito amorevole, niente figli, un lavoro vagamente noioso nonostante a dirlo non sembri: è una funzionaria dell’MI5, una branca dei servizi segreti britannici, ma svolge per lo più compiti burocratici di routine, dietro la scrivania di un ufficio. Villanelle, invece, vive a Parigi, è giovane, inafferrabile, sfrontata, ama il sesso, gli abiti firmati, i prodotti di lusso, è una psicopatica certificata e di mestiere fa la killer a pagamento per una misteriosa e potente organizzazione internazionale.
La storia di Killing Eve comincia con un omicidio e con la certezza, da parte di Eve, che l’assassino dev’essere una donna: «una fissa», le dicono tutti gli altri, finché l’intuizione non si rivela vera e non si trasforma in ossessione per questa scaltra, imprendibile e violenta omicida; un’ossessione reciproca, perché anche Villanelle è incuriosita, affascinata, profondamente attratta da Eve, una donna apparentemente comune eppure più intelligente di chiunque altro, coraggiosa quasi per caso, e soprattutto dannatamente testarda.
Alla base di Killing Eve, distribuita in Italia sulla piattaforma streaming Timvision, c’è una serie di romanzi scritti da Luke Jennings, intitolata Codename Villanelle, ma è soprattutto lo sguardo attraverso cui è filtrato l’adattamento tv, quello di Phoebe Waller-Bridge, a fare la differenza: un’autrice giovane (classe 1985), già responsabile di una delle commedie drammatiche seriali più nere e struggenti degli ultimi anni, Fleabag, cui è stato affidato questo atteso progetto di co-produzione tra la BBC britannica e la sua omologa americana.
Il risultato è stato un notevole successo di pubblico e critica in patria e negli Stati Uniti, e un’importante nomination agli Emmy guadagnata da Sandra Oh (che forse ricorderete come Christina Yang di Grey’s Anatomy), che è diventata così la prima attrice d’origine asiatica, nei 70 anni del premio, a essere candidata come protagonista di una serie drammatica.
La rielaborazione televisiva coordinata da Waller-Bridge è un thriller teso, appassionante e divertente, con evidente gusto per il senso d’avventura della spy story classica, tra indagini, inseguimenti e frequenti cambi di location, ma in cui la riconfigurazione al femminile di elementi noti riesce allo stesso tempo a dar loro nuova vita e a metterli in crisi. La caccia al gatto col topo, continuamente ribaltata, di Eve e Villanelle diventa così anche una riflessione illuminante sul genere come performance, come interpretazione, come gioco di ruoli: Villanelle utilizza in modo geniale gli stereotipi femminili per essere la migliore nel suo lavoro (per passare inosservata, per esempio, oppure per sembrare innocua, materna, accogliente quando in realtà è una sanguinaria assassina), mentre la parabola di Eve è quella di una donna che diventa lentamente se stessa mentre scopre una vocazione professionale inaspettata, riconoscendo parti di sé dentro la sua nemica.
La relazione, multiforme e imprendibile, che si sviluppa tra loro – da antagonista può farsi madre/figlia, o amichevole, cameratesca, o anche omicida, di sopraffazione, di controllo, o ancora, nemmeno troppo nascostamente, di attrazione fisica, sessuale, sentimentale, fino al definitivo specchiarsi l’una nell’altra – è l’aspetto più innovativo di Killing Eve, quello che riesce a portare la serie su strade costantemente imprevedibili, sorprendendo e spiazzando il pubblico di continuo.
E ci regala una delle serie migliori dell’anno, mentre ci ricorda di non fidarci mai delle apparenze, né delle facili etichette, degli automatismi, delle generalizzazioni.