A Khuiratta, una piccola cittadina nella regione pakistana del Kashmir, vivono circa 8mila persone. È una zona del Pakistan particolarmente povera, schiacciata dal conflitto con l’India, soffocata da una crisi economica che colpisce tutto il paese ma che in queste aree picchia ancora più forte. Sono aree, queste, dove la vita quotidiana è così asfissiante che riuscire a vedere in prospettiva è quasi impossibile. Così difficile che tanti, e sempre di più, scappano. Uomini, donne, famiglie, ragazzi e ragazze abbandonano i loro villaggi per cercare di raggiungere l’Europa.
Solo dalla cittadina di Khuiratta, erano in 25 sul peschereccio partito dalla Libia e naufragato una settimana fa al largo del Peloponneso, in Grecia. Solo due sono arrivati a terra. Gli altri, probabilmente, resteranno per sempre sul fondo del mediterraneo insieme ad altre centinaia di persone.
Sajid Yousaf aveva 28 anni, aveva un piccolo negozio a Khuiratta e due figli. L’ultima volta che suo padre ha parlato con lui, era l’8 giugno. Era in Libia e aspettava con ansia che i trafficanti lo caricassero sulla nave diretta dall’altro lato del mediterraneo. “Non ho mai voluto che se ne andasse,” ha raccontato il padre in lacrime al Guardian “Anche suo fratello maggiore glielo aveva detto. È un viaggio mortale, lo sappiamo tutti”. Sajid voleva andare in Italia, dove il fratello vive da 12 anni, dopo aver a sua volta affrontato un viaggio simile. Aveva promesso al figlio di 4 anni che sarebbe tornato con una bella bicicletta.
Sono diverse le famiglie che il giornale britannico ha incontrato a Khuiratta che avevano figli o nipoti su quella barca. Avevano tutti pagato più di 2mila rupie ad un uomo che aveva promesso di portarli in Grecia. Ma la maggior parte di loro sperava di arrivare in Italia, dove già vivono circa 500 persone provenienti da quest’area del Pakistan. Anche il cugino di Sajid era sul peschereccio. Aveva 29 anni. Suo padre aveva chiesto in prestito i soldi per affrontare il viaggio a una ventina di amici diversi. Era partito con il cugino lasciando a Khuiratta la moglie incinta, a cui sperava di poter offrire una vita diversa.
Anche Abdul Jabbar sperava di arrivare in Italia. Faceva il panettiere e aveva due bambini. Per arrivare in Libia aveva preso un volo per Dubai, poi un altro per la Libia e qui si era imbarcato. Dalla Libia aveva chiamato a casa, era preoccupato per le condizioni a cui erano costretti. È stata l’ultima volta che l’hanno sentito.
Rubina Kusar ha raccontato che suo figlio Ahmed, 26 anni, è partito per la Libia sei mesi fa e ha sopportato condizioni terribili. Lo hanno affamato, lo hanno picchiato per cercare di avere più soldi di quelli concordati e gli hanno preso il passaporto per impedirgli di fuggire.
Secondo gli abitanti di Khuiratta, almeno altri 100 concittadini si trovano ora in Libia, in attesa di partire. Prima, chi scappava dal Pakistan seguiva altre rotte. Passavano via terra dall’Iran e dalla Turchia, ma le politiche turche hanno fatto si che sempre di più prendessero la via del mare. “È la povertà che gli ha tolto la vita – dice Mohammed Haneef, lo zio di un altro ragazzo disperso nel mare al largo della Grecia – La povertà ha travolto le masse in Pakistan negli ultimi anni.”
Erano più di cento i Pakistani su quel peschereccio affondato al largo di Pylos. Solo 12 sono sopravvissuti. La cittadina di Khuiratta è ora un doloroso simbolo di quella tragedia, un doloroso simbolo di quanto il mare sia l’unica speranza, l’unica possibilità di salvezza da un’asfissia sempre più buia. Ed è il simbolo di come noi, dall’altro lato del mare, con le nostre scelte, le nostre politiche criminali e la nostra indifferenza, facciamo sì che quella speranza sia il motivo per cui migliaia e migliaia di persone, oggi, sono in fondo al mare.