Ricordate The Truman Show? Il film del 1998, firmato da Peter Weir e con protagonista Jim Carrey, raccontava di un uomo, Truman Burbank, cresciuto fin da quand’era neonato sotto le ininterrotte riprese delle telecamere, a sua insaputa. Senza averne idea, era la star di uno show televisivo, dove tutto era finto, dove ogni altra persona era un attore, dove ogni cosa era orchestrata dall’alto da un regista-demiurgo di nome Christof. Un cult in grado di preconizzare con lucidità una società in cui fare spettacolo di sé, riprendendo e trasmettendo la propria esistenza incessantemente, sarebbe stato sempre più la norma. E anche se (per ora?) nessuno si è azzardato a “rubare” l’intera vita di un tizio ignaro, quest’anno c’è stata una serie tv che per certi versi ha messo in pratica le strategie che Christof utilizzava con il povero Truman. Anche se per molto meno tempo, cioè poco più di due settimane. La serie in questione si intitola Jury Duty, la trovate su Prime Video anche con il titolo Il giurato. Negli Stati Uniti è stata un piccolo fenomeno, esploso – manco a dirlo – grazie a TikTok, e ha ricevuto diverse nomination agli Emmy. Racconta un processo civile e una giuria, in particolare un giurato di nome Ronald, ed è realizzata come se fosse un documentario, con lo stile di The Office o Modern Family (e d’altronde proprio da The Office vengono alcuni suoi autori). Il twist è che il trentenne Ronald è convinto di far parte di una vera giuria e di stare assistendo a un vero processo, mentre tutti gli altri – gli altri giurati, il giudice, i magistrati, la querelante, l’imputato, l’assistente giudiziaria, le guardie, etc. – sono attori. I quali, in uno strano mix tra reality e commedia dell’arte, improvvisano le proprie interazioni con Ronald seguendo un canovaccio scritto dagli autori, e aggiustato via via, se necessario. Il risultato è uno strano rimescolamento di format: Jury Duty è una sitcom, perché i personaggi sono scritti e creati per aderire a maschere spesso esagerate e divertenti, per creare interazioni comiche, viaggiando sul limite dell’assurdo; ma ha anche le convenzioni di un reality, perché la giuria è costretta a stare a lungo nello stesso spazio, e a un certo punto viene “sequestrata” in un hotel, e spesso commenta i fatti in un “confessionale” direttamente alla camera (Ronald è convinto di stare partecipando a un documentario sul sistema giudiziario americano, e non sa di essere anche ripreso da telecamere nascoste). Ma Jury Duty è anche, in un certo senso, un prank show, uno di quei programmi in cui si organizzano scherzi, o, volendo, una candid camera: ci sono diverse linee narrative scritte, e divertenti di per sé, ma gran parte della comicità nasce dal fatto di scoprire come reagirà Ronald a situazioni paradossali. In sostanza, Jury Duty è soprattutto un esperimento. Ma qual è il suo obiettivo? Il suo punto di forza è – e qui gli autori devono ringraziare la propria buona stella, oltre alla straordinaria responsabile del casting – proprio Ronald: che non è, come molti potrebbero pensare, un totale credulone, un sempliciotto, o un tipo poco sveglio, tutt’altro. Per certi versi, è la persona più normale possibile, per altri è sorprendentemente straordinario: empatico, gentile, divertente, determinato a mettere gli altri a proprio agio, capace di mediare, e mano a mano che il processo va avanti deciso a fare il proprio dovere civico, ad analizzare il caso con imparzialità, a evitare che un innocente possa essere condannato nonostante i pregiudizi. Ogni volta che i suoi compagni – e gli sceneggiatori – organizzano attorno a lui una situazione scomoda o imbarazzante, quello che succede a noi spettatori non è mai l’istinto di deridere il povero Ronald, di divertirci a sue spese: anzi, ci immedesimiamo in lui, condividiamo le sue difficoltà, ci chiediamo come reagiremmo nei suoi panni, e ci rispondiamo che ci piacerebbe davvero poter fare, come lui fa quasi sempre, la scelta migliore. Certo, una parte importante dell’interesse nel guardare Jury Duty sta anche nel provare a immaginare come sia stato realizzato, che tipo di sotterfugi i produttori abbiano dovuto mettere in atto, quanto sia complessa l’impalcatura costruita. Ma il motivo per cui Jury Duty finisce per “scaldare il cuore” ed essere tutto l’opposto di uno scherzo di cattivo giusto sta nell’idea base degli autori che questo possa rivelarsi, per certi aspetti, un “anti reality”, un anti “candid camera”: non fa leva sui nostri peggiori istinti, né sfrutta la tendenza umana al litigio, all’incomprensione, al gossip, alla malignità, alla competizione come fanno in genere i reality show. L’obiettivo di Jury Duty è mostrarci che le brave persone esistono, che fare la scelta giusta può essere anche una cosa normale: di questi tempi, saperlo non è male.
Jury Duty: “l’anti reality” di Prime Video
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Autore articolo
Alice Cucchetti