Genio, maestro, rivoluzionario, rompicoglioni. È tipico di pochi attrarre l’attenzione, l’amore e l’odio del mondo. Nel caso di Johan Cruyff, morto il 24 marzo del 2016, certamente l’amore e la riconoscenza battono i cattivi sentimenti che una figura gigantesca come la sua si porta dietro.
Oggi si può scoprire qualcosa in più sul numero quattordici più famoso della storia del calcio grazie a una autobiografia pubblicata postuma.
Cruyff, uno che ha insegnato a giocare a pallone prima facendosi ammirare dagli spalti, poi sedendosi in panchina e riversando sugli altri il suo sapere. Lo si preferisce ovviamente nella sua versione in calzoncini, perché qualunque ex grande calciatore lo si preferisce per ciò che è stato in grado di dare in più alla nostra immaginazione, all’immaginario degli appassionati, ai cultori del pallone.
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Nel suo caso la vicenda professionale si interseca con quella di un periodo, di una filosofia, che è quella del calcio totale olandese, poi esportato più o meno ovunque. E si mischia al dibattito attuale dei sostenitori del tiki-taka, vera reincarnazione di quel calcio, contro i cosiddetti tradizionalisti, che è più o meno come dire tiki-taka contro resto del mondo.
Ma il calcio non è una scienza, e gli occhi dei tifosi si riempiono di chi li fa inumidire.
L’importanza di Johan Cruyff si misura soprattutto dai tributi ricevuti alla notizia della sua scomparsa. Un riconoscimento imponente, e commovente, che ha coinvolto anche chi, appunto, non era stato un seguace della sua filosofia.
Ajax, Olanda, Barcellona. Le sue tre famiglie, attraversate, vissute e marchiate dalla sua presenza.
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Il mondo del calcio, dentro la cui storia Johan Cruyff rimarrà per sempre. Per chi attacca e per chi difende.
Johan Cruyff, “La mia rivoluzione”, Bompiani