
Il dato sui salari diffuso due giorni fa dall’organizzazione internazionale del lavoro è la premessa ai dati istat di oggi. L’aumento di rischio povertà ed esclusione sociale registrato dall’Istat nel 2024 si deve sostanzialmente a chi vive in famiglie a bassa intensità di lavoro (9,2% rispetto all’ 8,9% dell’anno precedente). La flessione dei redditi reali, colpiti dall’inflazione mai recuperata da aumenti ed adeguamenti, è stata di oltre il 17% per i lavori autonomi, dove si annida una quota importante di lavoro precario, e dipendenti, meno 11%. Insomma il lavoro non è più elemento di crescita sociale ed emancipazione, ma semmai motore di povertà. I lavoratori a basso reddito sono un quinto del totale. Il numero degli occupati a rischio di povertà lavorativa sono saliti al 10,3% rispetto al 9,9 del 2023. Considerando solo gli occupati a basso reddito, raggiunge quasi il 40%. Ci sono differenze importanti per genere, età, area geografica, che penalizzano i giovani, le donne, il sud e i migranti. Lo abbiamo detto spesso: la causa principale del lavoro sottopagato sta in un sistema produttivo che vive di bassi salari, sussidi alle imprese, che generano la quota di profitti più alta dell’ Europa occidentale, e genera disuguaglianze. Istat rileva infatti che l’impoverimento non è per tutti. Si allarga infatti la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, il reddito del quinto più abbiente è 5,5 volte quello del quinto più povero, in aumento dal 5,3 del 2022. Se chi lavora è povero, non va meglio per chi termina: oltre la metà delle pensioni ha un importo inferiore a 750 euro, dato che per le donne sale al 64%.