In un grosso tendone bianco Shakir Al Khaiat, un signore di 70 anni originario di Baghdad, con i capelli bianchi e la voce profonda, sta tenendo una lezione d’inglese a un gruppo di ragazzi. Sono circa una quindicina, tutti maschi. Ascoltano con attenzione. Il tendone è all’interno del campo profughi di Debaga, il più grande di tutto l’Iraq, che ospita più di 35mila persone scappate dai territori sotto il controllo dell’ISIS in Iraq, soprattutto da Mosul. La scorsa estate qui c’erano alcune migliaia di profughi. Nel giro di pochi mesi il campo di Debaga è praticamente diventato una città.
Gli studenti di Shakir Al Khaiat sono arrivati da pochi giorni. Sono tutti minori non accompagnati, sono senza famiglia. L’unico spazio disponibile per ospitarli è il campo di calcio. Qui lo chiamano lo stadio di Debaga. Dormono su dei materassi in quelli che una volta erano gli spogliatoi. Stanzoni sporchi, spesso con le finestre rotte. Di notte, in questo periodo, la temperatura arriva quasi a zero gradi.
Dopo la lezione d’inglese Tarik, 17 anni, va seguire il corso di panetteria. Ogni occasione è buona per imparare qualcosa di nuovo. “Sono qui da quindici giorni, abitavo nella provincia di Kirkuk. Sono scappato perché l’ISIS mi voleva uccidere. Dopo essere stato arrestato e liberato due volte per aver usato il cellulare per comunicare con l’esterno, degli amici vicini ai servizi di sicurezza mi hanno fatto sapere che ero nuovamente sulla lista dei ricercati e che rischiavo grosso. A quel punto – continua Tarik – ho chiesto aiuto a un cugino e lui mi ha messo in contatto con un passatore. Ho pagato 50mila dinari iracheni per farmi indicare un sentiero sicuro per uscire dal territorio dello Stato Islamico. Ho camminato per 13 ore dal tramonto all’alba, fino a un posto di blocco dei Peshmerga curdi. Loro mi hanno poi accompagnato in questo campo”.
Tarik è scappato dall’ISIS. Da pochi giorni ha lasciato casa anche il resto della sua famiglia. “Non sono qui con me – ci dice – però so che sono al sicuro”. Ma come gli altri ragazzi che ora vivono con lui Tarik rischia di tornare presto in guerra. Intorno a Debaga girano infatti i reclutatori delle milizie sunnite e sciite che combattono a Mosul. Alcuni li avrebbero già seguiti.
In realtà anche i più piccoli, i bambini arrivati qui la famiglia, sono stati segnati profondamente da quello che è successo e succede ancora oggi in Iraq. Ali ha 11 anni ed è scappato da Badosh, vicino Mosul, con i genitori e i suoi sette fratelli. È seduto nella sua tenda, lo sguardo a terra. Prima di scappare da Badosh Ali è stato colpito da una scheggia provocata da un’esplosione. È rimasto intrappolato durante un bombardamento e per diverse settimane non si è potuto curare. “Mi porterò sempre dietro quello che mi è successo. Vedo gli altri bambini correre. Vorrei tanto correre anche io, ma non posso, la mia gamba mi fa troppo male”.
Ali guarda gli educatori di Terre des Hommes Italia, che gestiscono il centro per i bambini nel campo di Debaga. “Visto che non posso fare tutte le attività gli ho chiesto qualcosa per giocare qui nella mia tenda, mi basterebbe anche una macchinina”.
Il nord dell’Iraq è pieno di storie come quelle di Tarik e Ali. Questo paese aveva appena chiuso il capitolo dell’invasione americana e della guerra civile quando è arrivato lo Stato Islamico. Passaggi tutti collegati tra loro. L’instabilità irachena, oggi legata anche alla crisi siriana, arriva da lontano. Molte le responsabilità. I più giovani, i giovanissimi, dovrebbero avere l’opportunità di costruire per l’Iraq un futuro migliore. Per ora, anche loro, sono costretti a scappare.