La poesia di strada nasce con l’intento di riportare i suoi versi proprio nelle strade, uscire dalle aule, dai corsi universitari, dalle biblioteche e dalle pagine stampate. Insomma dalla necessità e dall’urgenza di riportare la poesia tra la gente.
Questa è l’intervista a Ivan Tresoldi, in arte Ivan il poeta, un artista di strada che con le sue “scaglie”, brevi componimenti poetici, dal 2003 dipinge le vie di Milano e non solo, con l’obiettivo di rompere il confine elitario della poesia rendendola fruibile alla gente comune. Una delle peculiarità di Ivan è proprio il rapporto con i fruitori delle sue opere, la partecipazione del pubblico alle sue performances. Proprio per ottenere questo obiettivo agisce alla luce del sole, cercando il confronto con le persone mentre dipinge e dopo averlo fatto…
Ivan, parlaci di te e del tuo legame con la città di Milano
Sono nato in via Bari nel quartiere Barona, ho uno studio in via Bussola e ora abito in via Lombardini, quindi praticamente mi sono mosso solamente di qualche centinaia di metri (ride N.d.R). In Barona sono nato e in Barona resterò.
Pur viaggiando in tutto il mondo porto sempre la mia città dentro di me e spero io stesso di essere un pochino parte della mia città…
Chi scrive poesia per strada, chi fa il muralista, non può che essere indissolubilmente legato alle sue strade e ai suoi quartieri.
Hai girato il mondo portando con te le tue poesie. Dove sei stato e quali sono state le reazioni della gente?
La poesia di strada è un linguaggio universale proprio perché è il linguaggio più antico e originale della produzione in una società, è la prima forma di scrittura per le strade che forma un valore collettivo che noi chiamiamo “cosa sociale” o comunità. Io ho visitato molte città in tutto il mondo ma ognuna di esse ha la sua qualità e specificità. I viaggi ad Haiti, in Palestina, a Bucarest, in Kosovo, in Libano, a Cuba sono i viaggi che sono rimasti più impressi dentro di me ma devo dire che oltre ai luoghi mi affeziono molto anche alle persone, alla gente comune, come per esempio la signora del primo piano di Palermo o quella del terzo piano di via Mazzolari a Milano, mi sento molto legato a moltissime delle persone che ho incontrato.
Quanto è importante per te il confronto e il rapporto con le persone che incontri?
E’ tutto! Non esiste poesia scritta senza qualcuno che la legga, soprattutto per una poesia di strada come la mia che non è “esperta” o di qualità ma è poesia popolare. Io non sono un grande poeta, prendo delle parole e le metto al servizio delle persone che le fanno proprie. Voglio anche andare contro alla tendenza che ha preso il muralismo, cioè quella di fare interventi legali e legittimi in quartieri dove l’autore arriva, resta qualche giorno per poi ripartire senza dare la possibilità al quartiere di riconoscere l’autore. Io credo che chiunque prima di dipingere le strade debba rendersi conto di non essere lui il centro del mondo e debba necessariamente comprendere che il suo lavoro è solamente la metà del discorso, l’altra metà è fatta da chi quelle strade le frequenta, le vive, le ha costruite, le rinnoverà e le vivrà che va interrogato nella maggior complessità possibile perché da questi confronti si impara tantissimo, io stesso attraverso questi dialoghi sono cresciuto tantissimo come autore grazie al contributo di altri più che grazie alle mie capacità.
Da dove nasce la tua passione per la poesia?
Nasce dalle mie scarsissime abilità, quindi la poesia è un elemento di costruzione di massa per tutti e accessibile a tutti. Io purtroppo sono nato senza particolari talenti a differenza di tanti miei
colleghi muralisti o musicisti e quindi mi sono dovuto appropriare della forma più semplice e più immediata esistente, cioè la possibilità di tradurre le parole in qualcosa di visibile. È proprio la mancanza di talento che mi ha portato a scegliere qualcosa che sia un po’ la base di tutto: io non amo essere chiamato artista e forse nemmeno poeta, considero la poesia una forma di espressione
naturale dell’animo, casomai sono ancora un militante come nel 2000; credo in un riscatto collettivo che si possa agire attraverso le parole poiché un riscatto libero e liberato è quello che ho pensato di attuare. Quindi sono un poeta per scarsa capacità più che per talento (ride N.d.R).
Che tipo di sentimenti vuoi suscitare attraverso i tuoi lavori?
La riflessione, una parola che dice tanto, che significa riflettere, specchiarsi. Sicuramente già produrre un discorso è qualcosa di molto importante, il mio scopo è un po’ quello: fare la metà del discorso per fare in modo che qualcun altro aggiunga l’altra sua metà, che sia “chi getta semi al vento farà fiorire il cielo” o che sia una decorazione sulla facciata di un palazzo con delle lettere nascoste. Non è un caso che io passi dallo stampatello maiuscolo a lettere molto difficilmente leggibili. Credo che siamo in un tempo dove ci è concesso non essere presenti a noi stessi e non essere presenti al nostro tempo e penso che purtroppo questa non sia una condizione che possiamo delegare o che possiamo schivare. Essere presenti al proprio tempo e a se stessi è la condizione fondamentale di un individuo e di una comunità, quindi io imparando da altri cerco di fare in modo che tutti comprendano che siamo tutti “ vite che capitano ma siamo tutti anche vite da capitano.
In base a cosa decidi i luoghi dove esprimere la tua poesia?
Scelgo luoghi che abbiano un senso rispetto alle cose che voglio dire o che vorrei venissero dette e soprattutto scelgo in base alle comunità di riferimento che ho, quindi se dipingo a Lecce come a Cuba come ad Haiti o in Giambellino a Milano è perché sono luoghi che ho attraversato, che ho cercato di conoscere, che mi hanno contaminato, macchiato. Io non ho bisogno di superfici, per me ogni posto è diverso dall’altro. Il mio stesso contenuto non è una forma o un disegno e ha un valore solo se quel luogo si relaziona intensamente e ribadisco che la mia parte di lavoro rappresenta solo il cinquanta per cento. L’altro cinquanta percento è di chi legge e vive ed è la dimensione fondamentale, è come pensare che possa esistere una parola scritta senza un foglio o una penna. Io sono solo il foglio, solo la parola scritta. Per me luogo, società, comunità, individuo, parola sono lo stesso insieme di cose differenti.
Qual è il tuo lavoro più bello?
Il lavoro più bello è quello che deve ancora essere fatto (ride N.d.R).
Hai scritto una poesia che mi è rimasta particolarmente impressa: “Il poeta sei tu che leggi”, spiegamela…
Come ti dicevo prima, io sono solo il poeta che scrive e senza un poeta che legge dando senso alle cose che scrivo manca buona parte del lavoro. Credo che rispetto alle tendenze di certe culture fondate su poteri, di saperi fondati su poteri come l’arte o come una certa letteratura o editoria, io rifiuto l’idea che da una parte ci sia l’autore e dall’altra parte tutti a guardare come se fosse una statua o una televisione. L’autore non esiste senza il suo pubblico e quindi il poeta sei molto più tu lettore rispetto a me scrittore.
Parlami del lavoro che hai fatto con i giovani?
Negli anni ho lavorato tantissimo con i giovani, ho fatto lezioni e discussioni in centotrenta scuole negli ultimi quattro anni, quasi una scuola alla settimana. Non solo in Italia ma anche in Libano, ora nei campi profughi siriani abbiamo lavorato a stretto contatto proprio con i giovani, faccio visita a moltissimi licei in autogestione, cogestione, palestre come quella dell’istituto d’Istruzione Superiore Salvador Allende di Milano. Queste occasioni mi permettono di parlare di fronte a circa quattrocento studenti per volta. Incontro molti ragazzi presso i centri di aggregazione giovanile, altri ragazzi che vivono in condizioni di marginalità. Insomma diciamo che penso che lavorare con i giovani sia importantissimo.
Che programmi hai per il futuro?
Il futuro non è più quello di una (s)volta (ride N.d.R).