Che siate spettatori appassionati, casuali o assoluti detrattori del piccolo schermo, attraversare immuni la febbre da trono di spade è quasi impossibile: soprattutto in questi giorni, quando, dopo un’attesa di circa due anni, è in onda finalmente l’ottava stagione. Che è anche l’ultima, e dunque promette di rispondere alle domande che hanno tenuto con il fiato sospeso fin dall’inizio: chi siederà infine sull’ambito e scomodo trono? E importerà davvero, ora che gli Estranei, cioè un esercito di “zombie” quasi inarrestabile, è riuscito a oltrepassare la Barriera che proteggeva l’immaginario continente di Westeros?
L’inizio della serie sembra oggi lontanissimo, in un 2011 in cui la televisione non aveva ancora iniziato la rivoluzione dello streaming e il canale HBO era ancora associato a drammi molto seri, oscuri, per quanto possibile realistici, come I Soprano e The Wire: Il trono di spade – Game of Thrones in originale, cioè “gioco dei troni” – offriva un’ambientazione spudoratamente fantasy – un mondo fittizio e molto dettagliato, di ispirazione medievale – ma potenzialmente per tutti, anche per chi il fantasy proprio non lo digerisce. Gli elementi soprannaturali inizialmente ridotti al minimo, affondati nella leggenda sia per gli spettatori sia per i protagonisti, le trame principali riguardavano segreti di corte, macchinazioni politiche e una sanguinosa guerra di successione.
Lo scrittore George R.R. Martin, autore delle Cronache del ghiaccio e del fuoco da cui la serie è tratta, aveva guardato infatti alla Guerra delle due Rose, e costruito un mondo alternativo fatto di intricati alberi genealogici, casate, stemmi, motti, dinastie, culture, abitudini, religioni, credenze popolari. È raro che una serie tv conservi immutato il proprio successo stagione dopo stagione, ma Il trono di spade l’ha addirittura accresciuto, un’annata dopo l’altra, diventando un argomento di conversazione imprescindibile anche per chi non guarda la tv, entrando nelle nostre frasi abituali, nei nostri modi di dire: e mentre ci appassionava con i suoi doppi giochi, con la grande novità (per il piccolo schermo) per cui ogni personaggio poteva morire da un momento all’altro, perfino i protagonisti, ci forniva anche qualche utile metafora dell’attualità, prima fra tutte quella di un disastro ecologico irrimediabile e imminente, eppure ignorato da tutti gli uomini e le donne di potere, troppo impegnati a litigarsi il trono o a pianificare vendette personali.
Ma Il trono di spade è prima di tutto intrattenimento, con un budget sempre più elevato, una specie di blockbuster o di kolossal, ma per una volta diretto a un pubblico adulto (mentre il cinema è ormai colonizzato da supereroi per adolescenti): in otto anni abbiamo avuto inevitabili polemiche per le scene di sesso e di violenza espliciti, oltre alle infinite teorie dei fan che hanno cercato di prevedere lo svolgersi degli eventi, lo shock ripetuto e condiviso sui social dopo l’ennesimo sanguinoso colpo di scena, una quantità di meme e tormentoni online. Più di un commentatore ha notato come Il trono di spade sia stata la perfetta serie da social network, senza nemmeno saperlo, e si sia adattata così alla nostra contemporaneità: ma dietro il suo successo c’è sicuramente qualcosa di più, qualcosa che, quando tutta la frenesia che circonda queste ultime sei puntate si sarà placata, forse ci mancherà. E cioè il piacere ancestrale e universale di sederci tutti quanti attorno al focolare televisivo, ogni settimana, e ascoltare insieme la stessa appassionante storia, con il fiato sospeso.
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