Un test sulle funzioni cerebrali per capire quante probabilità si hanno di ammalarsi di Alzheimer.
Ne parla uno studio di scienziati tedeschi pubblicato sulla rivista americana Science. Le persone coinvolte negli esperimenti hanno tra 18 e 30 anni e sono state fatte navigare in un labirinto virtuale. Dal modo in cui si sono mosse si dovrebbe poter comprendere quante possibilità hanno di ammalarsi; magari, anche tra diversi decenni.
Il gruppo di studiosi è guidato ad Lukas Kunz, che lavora al Centro tedesco per le malattie neuro-degenerative di Bonn. “I nostri risultati – si legge su Science – possono fornire una spiegazione del senso di disorientamento nelle persone colpite dall’Alzheimer”. Nel 2006 la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora parlava di quasi 27 milioni di malati in tutto il mondo e prevedeva che entro il 2050 la cifra sarebbe diventata quattro volte più alta.
Il sito di Science scrive che chi è a rischio ha un livello di attività più basso nelle “cellule-griglia”, una rete cerebrale la cui scoperta è stata oggetto del Nobel per la medicina del 2014. “L’Alzheimer – dice l’articolo – è una delle malattie più studiate del mondo, ma finora i ricercatori hanno avuto successi limitati nel prevenire o far regredire la patologia”. Il valore della ricerca tedesca è confermata ai nostri microfoni da Gabriella Bottini, responsabile del centro di neuropsicologia cognitiva dell’ospedale di Niguarda.
Gabriella Bottini su alzheimer
“Se la ricerca ha passato il vaglio di Science – dice la professoressa – contiene sicuramente elementi interessanti. Tutto quello che aiuta a diagnosticare l’inizio di un deterioramento cognitivo è molto importante. Parliamo di una malattia complessa, in cui pesano diversi fattori, da quelli biologici a quelli di comportamento. Credo che l’approccio migliore sia quello sistemico, che tiene insieme i diversi aspetti”.
Se è possibile capire quante possibilità si hanno di ammalarsi, Bottini sottolinea che però non si può prevedere con certezza l’Alzheimer. “Elementi genetici o biologici possono dare un’indicazione, ma non permettono di prevedere lo sviluppo della patologia, che è quello che chiedono tutti i parenti dei malati”.