Quando Andrei Sakharov lavorava all’Istituto di Fisica dell’Accademia sovietica delle scienze, escogitò un sistema che sfruttasse i principi sia della fusione sia della fissione nucleare per la costruzione delle bombe atomiche. Il suo contributo nella progettazione della cosiddetta “Bomba zar”, la bomba a idrogeno sovietica, fu fondamentale. Non rinnegò mai l’apporto che il suo lavoro di fisico diede alla nascita di una delle scoperte più distruttive e pericolose nella storia dell’uomo, ma impegnò metà della sua vita a cercare di rimediare. Da fisico, divenne dissidente, si batté
contro la guerra, per la pace e per i diritti umani. Fondò un’associazione per difenderli, e nonostante le pressioni ricevute dal regime sovietico, lottò con tutte le sue forze per la liberazione dei prigionieri politici e di tutte le persone che venivano private dei diritti fondamentali. Nel 1975, i suoi sforzi vennero premiati con il Nobel per la pace per avere reso evidente come: “l’inviolabilità dei diritti umani offra l’unica vera base per una cooperazione internazionale autentica e duratura”.
L’Unione Sovietica non gli consentì di viaggiare all’estero per ricevere il premio, che fu ritirato a Oslo dalla moglie, Yelena Bonner. La stessa, che dopo la morte del marito, continuò a combattere la battaglia che li aveva uniti e che era costata a entrambi l’esilio. In onore di Sakharov, venne creato il premio che porta il suo nome, il più importante riconoscimento per i diritti umani nel vecchio continente, che viene assegnato ogni anno dal Parlamento Europeo. Premio che, oggi, è stato assegnato ad Alexei Navalny, il principale e più famoso esponente dell’opposizione al regime di Vladimir Putin in Russia. Navalny è detenuto in Russia dallo scorso gennaio. Era stato arrestato dopo essere tornato nel suo Paese dalla Germania, dove si trovava per curarsi da un grave avvelenamento che, secondo le inchieste, era stato organizzato dai servizi di sicurezza russi. A prima vista, potrebbe sembrare semplice avvicinare la biografia di Sakharov a quella di Navalny. Ma come la storia non è mai bianca o nera, così i giudizi sull’operato delle persone devono essere ben ponderati, perché l’indignazione – giusta e sacrosanta – rischia a volte di rendere ciechi e di santificare qualcuno senza approfondire la sua figura.
“Basta dar da mangiare al Caucaso”, “A volte la deportazione è la soluzione migliore”, e ancora “I gay della regione di Kirov sono rappresentati principalmente da froci”. Sono solo alcune delle dichiarazioni fatte, negli anni, da Navalny. Anti immigrazione, anti diritti lgbt e carico di discorsi d’odio nei confronti del Caucaso del nord e della Cecenia, devastata da quella stessa guerra denunciata con forza da Sakharov e da sua moglie Bonner. Navalny è, di fatto, un nazionalista. E in quanto tale, un’ampia porzione della sua ideologia e impregnata di razzismo, omofobia e
xenofobia. L’accanimento di Putin contro il suo principale oppositore è da condannare senza opposizione. La sua prigionia rientra perfettamente all’interno della repressione dei diritti umani che il regime russo porta avanti sistematicamente, ma il fatto che lui ne faccia parte, non significa – automaticamente – che Navalny sia un paladino dei diritti umani, un eroe da santificare e mitizzare. E il fatto che l’Unione europea non sia riuscita a trovare nemmeno una persone più meritevole di lui del premio più importante per i difensori dei diritti umani, in un anno come questo, un po’ fa pensare.
Foto | Un graffito dedicato ad Alexei Navalny a Ginevra, in Svizzera