Abdellatif Kechiche è tornato a Venezia, a dieci anni dal Gran Premio della Giuria per “Cous Cous” e a sette da “Venere Nera”. Nel frattempo ha vinto la Palma d’Oro con “La vita di Adele”, che dice di aver venduto per produrre il suo ultimo film.
“Mektoub, my love: Canto Uno” arriva dopo gli attenti di Parigi e di Nizza. Non è indispensabile saperlo, ma può essere utile per capire meglio questo film immenso, anche se il film è ambientato negli anni ’90 e forse c’è anche qualche spunto autobiografico pur essendo tratto da un libro di François Begaudeau (già autore del libro autobiografico da cui Laurent Cantet aveva tratto il film ” La classe” che vinse la Palma d’oro).
Mektoub in arabo significa destino. Tutto si svolge in un’estate vicino a Marsiglia, dove il giovane Amin (Shaïn Boumedine), studente di sceneggiatura a Parigi, torna per le vacanze. È la città in cui è cresciuto e in cui vive la sua numerosa famiglia. Amin frequenta e osserva gli amici della sua infanzia, tra spiagge, amori, danze, bevute e risate. E passa molto tempo con Tony, il cugino rubacuori che ha fatto innamorare la più cara amica di Amin, oltre a molte ragazze lì in vacanza.
In tre ore di film Kechiche si sofferma a lungo sulle scene corali, sugli sguardi, sui corpi, sui singulti in un flusso di emozioni travolto da parole, che riprendono il linguaggio vivo e carnale di “Cous Cous”, “La vita d’Adele” e “La schivata”.
La grande famiglia di Amin è la comunità magrebina, tutti i ragazzi sono di seconda generazione, soprattutto maschi, assetati di vita, di amore e di incontri con le coetanee figlie di francesi. Nessun ‘radicalizzato islamico’ in questo film e forse il film è rivolto anche i giovani, ora di terza generazione, che procurano la morte ad altri, e a se stessi, pensando di trovare il Paradiso, come gli raccontano. Ma il paradiso è qui, sembra dire loro Kechiche, dove l’amore è l’arma più forte.
Ascolta la corrispondenza a Cult su “Mektoub, My Love: Canto Uno”.