Alessandro Vanoli, storico del Mediterraneo: gli oggetti, le parole, le immagini del “mare nostro” oggi sono riformulate dal dibattito incentrato sulla paura e sulla propaganda politica, ma è necessario avere una prospettiva storica per guardare oltre e riconoscerci, a cominciare dal riconoscere il nomadismo come parte indissolubile della nostra civiltà.
L’intervista di Claudio Jampaglia a Giorni Migliori.
Che parole le vengono in mente in questo momento?
In assoluto, e poi forse vale anche per questo momento, le prime tre parole continuano ad essere navigazione, scambio e migrazione, perché sono le più antiche e le più recenti alla fine dei conti e sono quelle che danno il senso di uno spazio che ha una profondità nel tempo e una sua importanza storica per tutte quante le genti che lo vivono. Poi dipende molto da come lo guardiamo e come guardiamo al senso di queste singole parole, ma questo è un altro discorso.
E se le dovessi chiedere 3 oggetti?
È più difficile, perché ne abbiamo scritti un po’ di più e, tra l’altro,ne abbiamo messi 20 anche se ce ne venivano in mente molti di più. Vediamo, forse direi una coppa, che può sembrare una cosa semplice, ma in realtà è un oggetto che a che vedere col vino, con la tavola e lo stare insieme. Poi magari ci aggiungerei una rete, il senso banale del mestiere che forse più accomuna le varie rive del Mediterraneo. E infine direi una valigia o una sacca per i tempi più antichi, perché dietro a questo oggetto si cela uno dei sensi più profondi di questo Mediterraneo e in fondo di tutto il Mondo: la necessità, il bisogno o la voglia di spostarci.
Se lei dovesse raccontarci qual è l’incomprensione o il falso mito sul Mediterraneo che le sembra più persistente o che le dà più fastidio e vorrebbe sfatare, quale sarebbe?
Ne dico due! Quando ero un ragazzetto e cominciavo a fare questo mestiere negli anni ’90 il falso mito che ci sembrava da sfatare era era quello di un Mediterraneo un po’ stucchevole, fatto di casine bianche di gesso, di tramonti e di barchette blu. Era diventato un Mediterranee un po’ turistico e un po’ stereotipato che in realtà celava una incomprensione e nascondeva un Mediterraneo un po’ ottocentesco, la scoperta del sud da parte del nord, proprio come l’orientalismo, ma fatto su di noi. E adesso purtroppo ce n’è un altro micidiale a cui nessuno di noi era preparato, perché è stato veloce e recente: l’idea di un Mediterraneo che è dolore, morte e disperazione, un porto da cui fuggire. È un’idea recente, ma se dici Mediterraneo oggi evochi terroristi, crisi economica, barconi e non più quel banale miraggio turistico che era da sfatare qualche anno fa. Questo sì che è da sfatare.
La settimana scorsa lei ha recensito per la Lettura del Corriere della Sera un testo molto in particolare interessante di James C. Scott che si intitola “Le origini della civiltà – Una controstoria”. Il titolo della recensione è “La nascita delle inciviltà” e lei inizia così: “E se ci fossimo sbagliati?” In che cosa vi sareste sbagliati?
Credo che rimarrò una voce nel deserto a dirlo, però credo che una riflessione su questo dubbio vada fatta: se ci fossimo sbagliati a guardare sempre e solo lo Stato, nel suo senso più generale come grande riferimento? Lo Stato è sempre stato l’oggetto su cui ha ruotato sostanzialmente tutta la nostra percezione della storia: è lì che è nata la scrittura, è quella cosa lì che ha lasciato i grandi monumenti e le grandi vestigia per gli archeologi, è quello che ha creato le cronache che raccontavano di se stesso. Noi guardiamo tutta la storia sotto l’occhio, forse un po’ deformante, dello Stato. Chi rimane fuori? La maggior parte degli individui del Mondo, cioè coloro che si muovono e si spostano. I popoli nomadi, i popoli delle steppe, i popoli che non stanno all’interno di una struttura di questo tipo nel suo senso più generale. Possiamo anche chiamarli migranti. Ci sono tantissime persone che ogni tanto appaiono nella storia perché si fanno Stato e improvvisamente li conosciamo: i normanni che prendono la Sicilia e si fanno Stato o i mongoli che prendono tutta l’Asia. L’invito a guardare il mondo nomade in positivo, senza cioè aspettare che si fermi per riuscire a vederlo, forse ci aprirebbe una via per ripensare il senso stesso della nostra idea di civiltà.
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