“Mamma e figlia attaccate dal cordone ombelicale, le ho trovate così. Era l’estate del 2009. Lei aveva partorito sul barcone. Ma non ce l’hanno fatta. Le ho lasciate insieme nelle tomba, come le ho trovate, attaccate una all’altra. Questo è uno dei tanti incubi che mi insegue”. Pietro Bartolo parla con noi mentre passeggia lungo il molo di Lampedusa, in uno dei suoi pochissimi momenti liberi. Ricordando questo episodio si commuove, la sua voce si intenerisce.
Bartolo è il medico- ginecologo di Lampedusa e il responsabile di tutte le attività sanitarie dell’isola. Lo chiamano il “medico dei salvataggi”. Ha salvato e curato migliaia e migliaia di naufraghi, migranti, persone che hanno messo in gioco le loro vite, attraversando il mare a bordo di carrette per raggiungere Lampedusa. Per molti altri invece ha dovuto certificarne il decesso.
Bartolo arriva da una famiglia di pescatori, in tutto nove persone. Nonostante sia stato colpito da ischemia celebrale transitoria ha continuato in modo instancabile a fare il suo lavoro di medico. “Anch’io – racconta – prima di studiare medicina facevo il pescatore con mio padre. Un mestiere duro. Mio padre mi diceva sempre ‘in mare non ci sono taverne’, come dire non ci sono comodità”. Bartolo ha iniziato a fare il medico a Lampedusa nel 1989.
“I primi arrivi iniziarono nel 1990. Furono tre migranti, arrivati con una loro barchetta. I lampedusani dicevano: ‘Arrivano i turchi’”. Bartolo sorride e poi spiega; “Turchi non in senso dispregiativo, gli isolani chiamavano così tutti quelli che non avevano la pelle bianca”. Poi continua: “Da tre migranti, diventarono venti, cinquanta, duecento… Arrivavano all’inizio con barche loro. Poi subentrarono gli scafisti. Quello che non è cambiato sono le morti in mare”.
Dottor Bartolo, lei è lampedusano. Come spiega che gli isolani, nonostante l’arrivo massiccio di migranti, li aiutino, li accolgano, senza intolleranze?
“Non voglio fare retorica, ma il popolo lampedusano è generoso, ha accolto sempre tutti senza particolari lamentele, anche nei momenti più difficili”.
Lei come se lo spiega?
“Credo perché siamo un popolo di mare, di pescatori, e tutto quello che viene dal mare è benvenuto. Per noi lampedusani il mare è la vita e quindi dobbiamo rispettare tutto quello che arriva dal mare”.
Lei ha salvato molte persone, c’è una caso che ricorda più di altri?
“Sì, e glielo racconto. Siamo nel 2013, quando ci fu il grande naufragio che lei ricorderà (la strage di ottobre, quando si rovesciò un barcone con cinquecento migranti con centinaia di morti, ndr). Mi chiamano dalla Capitaneria di porto. Io accorro al molo e vedo arrivare, poco dopo, un peschereccio lampedusano, (i lampedusani furono i primi a intervenire, ndr) con a bordo venti migranti salvati, ma a poppa c’erano anche quattro corpi inerti, dei cadaveri”.
A quel punto cosa accadde?
“Stavano mettendo nei sacchi i cadaveri. Io, come faccio sempre, prima chiesi di controllare i corpi. E a quel punto mi accorsi che quello di una donna, dall’apparenza morta, aveva il polso che flebilmente batteva ancora. La feci portare subito al centro medico dell’isola, in rianimazione. Fu difficile ma la salvammo, una gioia immensa in quella tragica giornata. Ricorderò sempre quel viso gentile di donna e il suo nome: Kebrat. Ora vive in Svezia”.
Lei ha salvato molti bambini, ma tanti ne ha visti purtroppo morire.
“Sì, ne abbiamo salvati tanti e vedere i loro visi tornare a sorridere anche per qualche momento mi ha dato una forza formidabile, ma non vorrei parlare piu di bambini…”.
Posso chiederle perché?
“Guardi, ho un ricordo che… (Bartolo fa una pausa lunga, poi riprende, ndr). Un giorno mi portarono 111 cadaveri nei sacchi e mi dissero che tra loro c’erano dei bambini. Per me quando faccio le ispezioni cadaveriche è sempre un trauma. E quella volta speravo che aprendo il primo sacco non ci fosse un bambino. Invece c’era, ricordo che aveva un paio di pantaloncini rossi, sembrava ancora vivo, ma non lo era più. E poi… (Bartolo si interrompe, ndr). Guardi non voglio più parlare di questo…”.
Lei ha aiutato anche diverse donne migranti a partorire.
“Sì, e ricorderò sempre la donna libica che mi portarono con l’elicottero, prelevata da un barcone: da ore le si erano rotte le acque, improvvisammo una sala parto e riuscimmo, grazie alla Madonna, a salvare lei e il bambino. Fu una gioia per me e tutti i miei collaboratori”.
Che cosa risponde a chi le ha detto che, dopo aver visto cosi tanti naufraghi morti, ci si abitua?
“No, è disumano pensare questo. Sono un uomo, un medico, non sono un robot. Altro che abituarsi, io ho gli incubi per quello che vedo, che ho visto”.
Dottor Bartolo, molti la definiscono eroe, lei che cosa dice?
“Ma quale eroe, quale eroe… Io sono solo un medico che fa il suo dovere. Quello che dovremmo fare tutti: dare una mano a chi te la chiede. Io faccio quello che è giusto fare, né più, né meno”.
Ma lei ha mai avuto paura di non farcela?
“Sì, in alcuni casi. Ricordo di aver avuto paura che mi morissero 23 ragazzi che sono arrivati qui, tutti ustionati gravi perché era esplosa una bombola in Libia mentre aspettavano di imbarcarsi”.
Quando è accaduto?
“Tre mesi fa. Stavano cucinando su un spiaggia in Libia, prima della partenza. La bombola del gas è esplosa, alcuni sono morti, altri sono rimasti ustionati e gli scafisti li hanno messi sul barcone. Una nostra motovedetta li ha recuperati e portati qui quasi in fin di vita. Tra loro una bambina di due anni. Ho avuto paura di non salvarli. Poi invece siamo riusciti a curarli, ma è stato un momento molto, molto difficile”.
Pietro Bartolo ci saluta con una richiesta: “Scriva per favore questo: non si può pensare di accogliere solo i rifugiati e chiudere la porta in faccia a quelli che chiamano ‘migranti economici’. Ma che differenza c’è tra scappare per non morire in una guerra e scappare perché si muore di fame?”.
Nell’audio Pietro Bartolo racconta uno dei momenti che più lo tormentano nei suoi ricordi. L’episodio risale a tre anni fa, quando venne chiamato a identificare i migranti a bordo di un carretta del mare.