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Il grosso problema del governo Meloni: i conti non tornano

Giancarlo Giorgetti ANSA

Il governo Meloni ha un grosso problema, che al ministero dell’Economia conoscono molto bene: i conti non tornano. Ci sono 12 miliardi da tagliare sul deficit che chiede l’Europa e una manovra colma di promesse da portare a casa. Il rischio è dover fare pesanti tagli, o alzare le tasse. La svendita di pezzi pregiati dello stato, quote di Eni o della Poste, non darà gran chè. Con le riforme fiscali, la base fiscale si è ridotta col 25% dei contribuenti che paga oltre il 70% di tutta l’Irpef.

Il governo allora punta su uno strumento: il concordato fiscale biennale, per recuperare soldi. Ma il concordato parte il 15 giugno, e con i messaggi lassisti sul fisco, il rischio è che le adesioni, quindi le entrate, siano sotto le stime. E con ogni probabilità da qui che il deus ex machina del fisco del governo, l’uomo di Meloni Maurizio Leo, fa proprio ora quel decreto attuativo, dimenticato da 6 anni, sul redditometro: non perché lo strumento serva in sé, ma per lanciare un messaggio: aderite al concordato o vi controlliamo. Questo almeno si dice nei corridoi del parlamento. Insomma, la disperazione di rimediare denaro pesa più della campagna elettorale, sottovalutazione cruciale: se Fratelli d’Italia inizialmente si intesta la mossa di Leo,gli alleati saltano alla giugulare Forza Italia parte in quarta e la Lega, che esprime il ministro dell’economia, le va subito dietro alzando i toni. Sia mai che il loro elettorato di piccoli imprenditori e autonomi abbia da ridire.

A proposito: il ministro dell’economia, su cui Leo puntava per avere almeno la disattenzione della lega, e che ben sa quanto il governo abbia bisogno di soldi, tace da due giorni. Non può più tacere, davanti al disastro politico e comunicativo a due settimane dal voto, Meloni. Che ribadisce il suo messaggio: non disturbiamo chi produce. Trasformando in boomerang l’iniziativa del viceministro Leo, tecnico stimato, da vent’anni in politica, divenuto rapidamente capro espiatorio.

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    Massimo Alberti
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    Due artisti di teatro si trovano a vivere in un’Italia nuova, in cui non c’è più spazio per i loro spettacolini di sinistra. La storica egemonia culturale è terminata. Purtroppo, non sanno fare nient’altro che spettacoli di teatro. Non c’è via di scampo: devono diventare artisti di destra. Anche perché, se a sinistra lo spazio è poco -sempre meno- e molta la concorrenza, a destra ci sono praterie. C’è lo spazio per una nuova classe dirigente. Per una nuova egemonia, tutta da costruire, della quale essere protagonisti. Il problema è che loro, la destra, non la conoscono bene. Cercano allora di capire come si faccia, uno spettacolo così. Si domandano cosa sia, la destra, che confini abbia. Studiano, si informano, immaginano, fantasticano. Ci provano. Poi cominciano, così: "Hanno vinto loro. E ora dobbiamo obbedire. Spazi, case, televisioni e piazze hanno i loro colori. E noi, sempre più sbiaditi. Se non puoi batterli, e non possiamo, unisciti a loro. Loro sono la maggioranza. E forse un motivo c’è. Nel mondo della cultura c’è bisogno di una nuova classe dirigente. E noi siamo pronti. Dove c’è discordia, porteremo armonia. Dove c’è errore, porteremo verità. Dove c’è dubbio, porteremo fede. Dove c’è angoscia, porteremo speranza. Questo è uno spettacolo di destra. Siamo Nicola e Niccolò e siamo pronti a rinnegare tutto, siamo pronti a salire sul carro dei vincitori. E non faremo prigionieri." Oggi a Cult Ira Rubini ha ospitato Niccolò Fettarappa per parlare dello spettacolo, realizzato insieme a Nicola Borghesi, che debutta proprio oggi all'Arena del Sole di Bologna.

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    «Dal decennio populista al nazionalcapitalismo». Lo scienziato politico Mattia Diletti, dell’università La Sapienza di Roma, ne ha parlato a Pubblica. Negli anni ‘10 in occidente maturano movimenti e leader politici che si fanno portatori dell’insoddisfazione delle classi medie e di quelle più povere della società. Sono le conseguenze della crisi del 2007-2008, e dell’impoverimento crescente. In Europa è il lascito delle politiche di austerità. I leader populisti promettono cambiamenti radicali in nome del popolo, l’affossamento delle elite. Si dicono anti-sistema. Negli anni ‘20 prende corpo l’ideologia nazionalcapitalista (organizzazione capitalista, nazione, interesse nazionale, promessa di restituzione di benefici materiali e immateriali andati perduti). Finirà per alimentare il consenso verso gli esponenti attuali del sovranismo di destra più estremo.

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