
Il Governo ha cancellato il blocco dei licenziamenti. Unica eccezione, la filiera del tessile. La fermezza di Draghi, sostenuto dall’asse Lega-Italia Viva, non ha lasciato altre concessioni. Non si salvano neppure le 85 aziende con aperto un tavolo di crisi.
È difficile persino chiamarla mediazione.
Di fatto passa la linea più ferma, quella di Confindustria, che voleva subito la fine del blocco: in industria ed edilizia le aziende potranno ricominciare a licenziare, con decine, forse centinaia di migliaia di posti a rischio, difficile quantificarli. Unica concessione la filiera del tessile – circa 140 mila lavoratrici e lavoratori coinvolti – che sarà quindi l’unico oggetto dell’apposito decreto che il Governo approverà domani per allineare il blocco al 31 ottobre, come nei servizi. Spetterà ora ai tecnici definire i criteri oggettivi.
È questo l’esito della cosiddetta “cabina di regia”, il vertice tra il presidente del Consiglio Mario Draghi ed i ministri che nel Governo rappresentano i partiti della maggioranza. Il blocco del pagamento delle tasse per le imprese, quello invece è stato prorogato, di due mesi.
Scartata l’ipotesi di allargare le eccezioni ad altri settori -l’automotive ad esempio – usando il criterio del ricorso alla cassa integrazione, non si salvano nemmeno i 55mila lavoratori delle 85 aziende per cui è aperto un tavolo di crisi, che sembrava potessero beneficiare della deroga e che invece non sarà automatica, ma scatterà solo se saranno le aziende a chiedere fino a 13 settimane di ulteriore cassa covid. Potrà licenziare ad esempio Whirlpool, prima ad annunciare che con la fine del blocco dei licenziamenti avrebbe avviato le procedure. I sindacati avevano chiesto almeno di attendere la riforma degli ammortizzatori sociali, per evitare che chi sarà buttato fuori dalle aziende, rischi di trovarsi senza lavoro e senza tutele.
Richieste totalmente ignorate: il Governo li incontrerà oggi, ma a giochi ormai fatti. Ultima carta che resta a Cgil-Cisl e Uil è sperare nella benevolenza di Confindustria ad accettare un patto per utilizzare prima tutti gli strumenti consentiti – contratti di espansione, proroga della cassa covid laddove è possibile – e solo poi procedere ai licenziamenti.
Difficile: le imprese in queste settimana hanno mostrato una certa fretta per poter per iniziare prima possibile quei processi di ristrutturazione interna che per i sindacati si tradurranno nell’espulsione dalle aziende dei contratti più tutelati e remunerati, sostituiti da collaborazioni, interinali, contratti a tempo. Del resto è già avvenuto nei primi mesi del 2021, con il boom dei contratti a termine a fronte di una situazione per le imprese tutt’altro che drammatica: lo testimoniano i dati Istat di forte crescita su tutti i fronti: produttività, fatturato, fiducia, lo stesso risparmio di 5 miliardi sui sostegni non richiesti discussi nella cabina di regia è un indice chiaro.
La proroga avrebbe solo rimandato ad ottobre questo che è il vero nodo socio-politico: in quali tasche finiranno i soldi della crescita che è già ripresa. Ma le associazioni di categoria delle imprese volevano evitare di trovarsi a novembre troppi licenziamenti tutti insieme in un clima sociale potenzialmente rovente.
Di fatto è passata questa linea.
Il segretario del PD Enrico Letta ed il suo ministro Andrea Orlando rivendicano quella che chiamano “mediazione”, per Orlando – contestato ieri all’Ilva di Genova – la fine del blocco dei licenziamenti così sarà “meno traumatica”. Ma la linea di Pd, 5S, LeU, e persino di Forza Italia, che chiedevano 2 mesi di proroga secca, è stata bocciata, per la fermezza di Draghi sostenuta dall’asse tra leghisti e renziani.