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I Los Van Van, metafora per il dopo Raul Castro

A Cuba non è difficile ascoltare delle conversazioni in cui si ragiona e discute di gruppi, cantanti, leader, tendenze, storia della musica cubana e latina con la stessa passione con cui noi potremmo farlo di Juventus, Inter e Milan e dell’ultima giornata di campionato. Di questi tempi un argomento di conversazione molto battuto sono i Los Van Van. La formazione in assoluto più popolare e amata di tutta la vicenda musicale cubana successiva alla Rivoluzione è da due anni orfana di Juan Formell, fondatore e leader del gruppo, che ha guidato la sua creatura, nata nel ’69, quasi tanto a lungo quanto Fidel ha guidato Cuba. Alla morte di Formell i Los Van Van sono stati ereditati dal figlio Samuel, secondo molti privo del talento e del carisma del padre, e responsabile di uno scadimento di quella che i cubani vivono come una istituzione, e le cui sorti non trattano come una semplice faccenda musicale ma alla stregua di una vera questione nazionale.

La legittimazione conquistata facendo una rivoluzione in prima persona, armi alla mano – nel caso di Formell una rivoluzione musicale, imbracciando un basso elettrico – poi un ruolo di leader carismatico, quindi, dopo decenni, l’inevitabile passaggio di consegne, con la piccola difficoltà che la legittimazione personale e il carisma, a differenza di un gruppo musicale, non si possono ricevere in eredità. A Cuba oggi i Los Van Van non sono più solo una istituzione, sono anche una metafora: “La metafora di un problema che il progetto nazionale cubano deve affrontare“, mi dice Joel Suárez.

Barba e capelli lunghi, jeans, braccialettini da hippie anni sessanta-settanta, fumatore incallito, sempre indaffaratissimo, Suárez, 53 anni, è il coordinatore del Centro Memorial Martin Luther King, nato all’inizio degli anni settanta per iniziativa di pastori e fedeli protestanti. Nel 1987 il Centro ha scelto di richiamarsi al leader delle lotte per i diritti civili degli afroamericani come segno dell’impegno fattivo ad entrare in rapporto con il vasto municipio in cui il Martin Luther King ha sede, Marianao: abitata da un proletariato in buona parte nero e mulatto, è una delle parti della città che più rappresentano l’Avana profonda.

Con un’ampia esperienza internazionale, Suárez conosce bene anche la sinistra italiana, nonché ambienti di quella milanese; con una delegazione del Centro nel 2014 ha partecipato a Roma al primo incontro di Papa Bergoglio con i movimenti popolari, e poi a quello successivo in Bolivia nel 2015. Suárez si esprime con un linguaggio da militante e condivide esplicitamente, come il Martin Luther King che dirige, una prospettiva socialista, ma, riferimento delle Chiese protestanti a Cuba, è una voce importante della società civile indipendente.

Che rapporto ha il Centro con una realtà non facile come Marianao?

Il Martin Luther King ha conosciuto nel tempo una evoluzione che lo ha portato da una relazione diretta con il barrio, attraverso nostri progetti di intervento, alla relazione con soggetti formali, come istituzioni locali e consigli popolari, e informali, cioè per esempio attivisti che hanno progetti sia in questa comunità che altrove e che noi appoggiamo e accompagnamo. Fondamentalmente il nostro scopo è la formazione di attivisti sociali, di leader comunitari, e dell’accompagnamento a processi organizzativi ed esperienze sociali che portano avanti. Quindi ci occupiamo tanto del nostro barrio quanto di tutto il Paese, e anche di situazioni fuori da Cuba, addestrando persone ad acquistare la capacità di creare spazi socali per la partecipazione popolare: che si tratti di un coro di bambini, del lavoro con un’istituzione locale, o del rapporto con un movimento sociale in Brasile.

Come vedi questa fase? Cominciamo dalla riapertura delle relazioni con gli Stati Uniti…

In un momento in cui abbondano fattori esterni drammatici e non solo per Cuba, compresi suoi amici e alleati, qualsiasi tentativo di trasformazione della vita del paese continua ad essere molto sovradeterminato da questi elementi esterni. In questa condizione per noi è stato un successo ristabilire delle relazioni con gli Stati Uniti. Ma la normalizzazione dei rapporti sarà un cammino difficile: a noi – parlo come società civile, ma coincido al cento per cento con il mio governo – pare legittimo che questa normalizzazione sia possibile solo con un’eliminazione totale del bloqueo (l’embargo, ndr), con una condotta degli Stati Uniti di assoluto rispetto del diritto internazionale, e di conseguenza della nostra sovranità e autodeterminazione, e di non ingerenza nei nostri affari interni, e con la restituzione del territorio della base navale di Guantanamo, parte integrante del nostro paese e illegittimamente in mano agli Stati Uniti.

La lotta fino all’eliminazione di quello che rimane del nucleo duro del bloqueo è di estrema importanza per liberarci di una penitenza che ci è imposta, per emanciparci dalla limitazione delle nostre possibilità economiche che rappresenta – anche con le multe che continuano ad essere comminate a soggetti stranieri che intrattengono rapporti con Cuba (per esempio BNP Paribas, ndr) – e anche per togliere una giustificazione ad errori e problemi che sono nostri. Può venire Obama, possono venire i Rolling Stones, si può creare un clima favorevole, si può discutere anche un tema come quello dei diritti umani, ma bisogna arrivare prima delle elezioni americane ad una normalizzazione dei rapporti, all’eliminazione di una situazione – come riconosce lo stesso Obama – tanto giurassica come il bloqueo: perché niente ci assicura che ci sia un trionfo dei democratici. In questo senso abbiamo ancora un gran bisogno di appoggio internazionale.

A cinque anni dall’avvio delle riforme che valutazioni si possono fare?

Le trasformazioni economiche sono molto condizionate dalla congiuntura dell’economia globale ma anche dai difetti e dalle insufficienze della nostra economia. A parte questo le riforme in corso comportano l’emergere di un settore privato: e venendo da una tradizione di cristianesimo rivoluzionario non ci sfugge che, benché molti cubani del settore privato emergente diano prova di un atteggiamento solidaristico, ad orientare il settore privato sono criteri di massimizzazione dei profitti e di competitività, che entrano in frizione con quei valori socialisti che sono stati inalberati dal progetto della Rivoluzione cubana. D’altro canto oggi cominciano a essere protagoniste della vita del paese generazioni che sono cresciute in anni di penuria e crisi economica, che in una maniera o nell’altra hanno impattato appunto sui valori. Inoltre, malgrado Cuba sia un’isola, malgrado l’insufficienza fino ad oggi della possibilità di connessione a internet, non siamo però mai stati separati dal mondo, e i nostri figli crescono risentendo di una egemonia culturale transnazionalizzata, piena – per dirla in termini teologici – di anti-valori: consumismo, mercato, banalizzazione della cultura. Ma non possiamo pensare e aspettare che i problemi di allargamento delle diseguaglianze e di perdita di valori si aggiustino risolvendo i problemi economici.

Che cosa fare?

Una sfida importante è come combinare proprietà statale e privata con formule socializzate e socializzanti di produzione, e non mi riferisco solo al cooperativismo in campo agricolo, ma all’ambito di quella che qualcuno chiama economia popolare e solidaristica, a cui – senza demonizzare il settore privato – bisognerebbe dare maggiore impuso nel Paese. Per intervenire sulle disuguaglianze, bisogna poi mettere in moto delle politiche pubbliche proattive. E un’altra sfida è quella del nuovo ruolo del municipio, che fino a questo momento è stato una cinghia di trasmissione di un meccanismo dal centro dell’amministrazione dello stato verso il territorio. Adesso il municipio ha un’autonomia, un ruolo, e dobbiamo imparare a gestire delle strategie di sviluppo locale, che devono tenere conto appunto di problemi di equità, e adeguare le politiche nazionali alle caratteristiche dei territori: che coerentemente con l’ispirazione socialista del progetto dovrebbero essere accompagnate da maggiori livelli di protagonismo e controllo popolare. Per le istituzioni della società civile come la nostra, e i movimenti e le reti sociali che hanno generato, c’è la sfida del lavoro comunitario, con la gente, per rafforzare i tessuti che consentano di tradurre tutte le aspirazioni in termini di valori in un concreta capacità di incidere nella società.

A breve ci sarà il primo congresso del Partito dopo il 2011, e c’è il problema del ricambio generazionale, ormai alle porte…

Il precedente congresso aveva prodotto una limitazione del periodo di esercizio di funzioni pubbliche, nelle istituzioni politiche, statali e di governo, e adesso ci stiamo avvicinando ad una scadenza, che credo segnerà l’uscita dalle responsabilità di una buona parte – e della parte più significativa – della dirigenza storica. Un nuovo presidente subentrerà, in continuità con l’attuale ma anche più giovane dell’attuale, e senza essere caricato della densità simbolica che hanno avuto i leader precedenti, quella di Fidel e di Raul. Credo che non si possa pensare a nessuna politica di elaborazione di una nuova leadership che punti ad un altro Fidel o ad un altro Raul.

In qualunque ambito che abbia avuto una relazione molto stretta con una leadership carismatica – si tratti di Mick Jagger e dei Rolling Stones, di Juan Formell e dei Los Van Van, di Fidel Castro e di Cuba – quello che viene dopo secondo me deve essere il rafforzamento della istituzionalità democratica, che assicuri che i valori, il senso che ad un processo abbiamo dato come nazione siano garantiti non da una persona, ma da persone che occupano incarichi precisamente regolati all’interno di questa istituzionalità: e pertanto anche il controllo da parte della cittadinanza e la partecipazione popolare devono essere maggiori. Il che non significa seguire l’esempio della democrazia occidentale e pensare al multipartitismo o a elezioni presidenziali dirette: già abbiamo il mal di testa con un partito, figuriamoci come sarebbe con dieci. Significa invece rafforzare la sovranità popolare e il controllo della cittadinanza su chi tiene gli incariche che la cittadinanza gli ha conferito. Come faccio ad essere sicuro che alla morte del fondatore di un gruppo emblematico come Los Van Van, i Rolling Stones della salsa, suo figlio, che adesso li dirige, non li trasformi in un gruppo che fa reguetón? E che mantenga invece ai Los Van Van la loro personalità distintiva?

Per esserne sicuri i Los Van Van devono trasformarsi in un patrimonio culturale della nazione cubana, e le decisioni su Los Van Van non devono essere del figlio di Juan Formell, ma per lo meno dell’insieme del gruppo, o di un organismo che si occupi dei Los Van Van eletto dai cubani. E’ una metafora di un problema che ad un certo punto deve affrontare qualunque progetto musicale, o di una piccola associazione, o imprenditoriale, o della chiesa, quando è stato caratterizzato da una leadership carismatica: così come lo deve affrontare una famiglia, quando la famiglia è stata guidata da un patriarca.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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