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“I Grammy non mi hanno cambiata”: Samara Joy, ritratto di una giovane jazzista

Samara Joy

“Scusa, aspetta un attimo” dice Samara Joy interrompendosi. A farle da sottofondo, o meglio quasi a coprirle la voce, una di quelle sirene da vigili del fuoco che se si è mai stati a New York si conoscono bene, chiassose e intervallate da colpi di clacson udibili a chilometri di distanza.

“Perdonami, ma ora sono a New York e qui è sempre così. Eppure dovrei esserci abituata, qui cci sono nata…”. Già, Samara Joy è figlia della Grande Mela. Per la precisione del Bronx, una zona che uno assocerebbe subito all’Hip Hop. E invece il percorso di Samara Joy, partito dal Gospel, ha incrociato il Jazz una volta iniziato il College.

“All’inizio, quando frequentavo il primo anno di università, la persona che mi ha fatto iniziare questo viaggio è stata Sarah Vaughan” riprende una volta passato il camion dei pompieri. “È stato per la facilità con cui lavorava con il suo strumento, la sua voce, credo. Non credo di aver mai sentito nessuno cantare con tale disinvoltura, esplorando allo stesso tempo tutte le diverse parti della sua gamma e trovando idee sul momento, che poi insreiva perfettamente nelle canzoni. Pensavo: “Devo imparare a farlo”. È stata la prima persona che ho ascoltato e che mi ha fatto pensare: “Questo è quello che voglio fare”. Poi sono arrivate Betty Carter e Abby Lincoln, e musicisti come Duke Ellington e Eddie Lockjaw Davis. Mi sono appassionata, perché non avevo mai sentito nessuno di questi nomi prima di arrivare al college. Sono stati tutti molto influenti nella mia decisione di dedicarmi al jazz a tempo pieno, anche se fino a quel momento non li conoscevo”.

Samara Joy

Penso che sia anche affascinante scoprire artisti così grandi quando non si è più ragazzini. Significa che il mondo ha ancora molto da darti per quanto riguarda la musica. Credo che sia così per tutti. Tu poi sei un artista giovane, ma gli ultimi tre anni sono stati molto intensi per te. Voglio dire, hai scritto il tuo primo disco nel 2021, ora siamo nel 2024 e in mezzo hai vinto tre Grammy. Ora esci con un nuovo disco, dopo un paio di altri lavori. La prima domanda riguarda proprio “Portrait”, il disco nuovo, che posso immaginare sia in qualche modo il risultato di questo periodo intenso. Può dirci qualcosa sulla sua storia?

La storia di questo disco è piuttosto semplice. Non volevo avere fretta dopo il successo del secondo album, “Linger Awhile”. Mi sentivo come se la mia testa stesse girando, mi chiedevo: “Ok, cosa facciamo dopo?”, e sono tornata in tour. Per un po’ ho cantato Linger, ma aggiungendo nuovo repertorio alla scaletta da eseguire dal vivo. Poi ho pensato: “Voglio avere più orchestra dietro di me, che mi sostenga. Voglio più arrangiamenti. Voglio che ci sia un gruppo dedicato alla scrittura, alla revisione e al perfezionamento di qualcosa”. Ed è stato allora che ho guardato in giro tra i miei colleghi e mi sono detta: “Ok, tu, tu, tu e tu. Mettiamo su una band”. Capisci? Non sempre funziona a livello di chimica o, sai, anche solo di orari diversi. Ma sono così felice che con questo particolare gruppo di musicisti, tutto, tutti gli elementi fossero al posto giusto. Le stelle erano allineate. Tutti hanno la mentalità di crescere come musicisti, e tutti sono influenzati da tante cose. Ma hanno il loro tocco personale sul loro strumento e nella loro scrittura. È stato perfetto. È stato il progetto perfetto su cui concentrarsi nell’ultimo anno. Perché abbiamo potuto commettere errori insieme. Abbiamo potuto recuperare insieme. Siamo stati in grado di affinarci davvero l’un l’altro tra noi e con la musica. E spero che quell’affiatamento e quel duro lavoro si riflettano in questo album.

Direi proprio di si. Ci sono brani in particolare in cui credo si possa capire quello che hai appena detto. Ad esempio, Reincarnation of a Bird è incredibile, perché inizia con la tua voce sola, come un pezzo a cappella. Poi arriva la band. Poi c’è solo la band. E poi di nuovo la tua voce. Possiamo quindi immaginare quanto sia stato magico creare qualcosa del genere. Come hai appena detto, nell’ultimo periodo sei stata anche molto in tour con la tua band. Quanto è importante l’esperienza del tour, dei concerti e del fatto di suonare insieme di fronte a un pubblico?

Ha avuto un ruolo importante nel riuscire a portare a termine questo progetto. Perché non volevo passare dallo stare sul palco, suonando a stretto contatto, allo stare in studio, in una specie di cabina, separati l’uno dall’altro e costretti ad ascoltarci in cuffia. Avevamo già ascoltato le dinamiche reciproche e sviluppato questa chimica a orecchio, stando molto vicini. Quindi sono davvero grata di aver avuto la possibilità di entrare nello studio di Rudi Van Gelder, una stanza fatta apposta per la musica e per questo tipo di musica. Ed è venuto fuori in modo del tutto naturale. Devo sicuramente dare il merito al fatto che siamo riusciti a suonare insieme per tanto tempo. Forse un anno non è così lungo, ma la quantità di concerti che abbiamo fatto in quell’anno ci ha permesso di crescere fino al punto in cui possiamo andare in studio e registrare sei canzoni, sei arrangiamenti ogni singolo giorno finché non abbiamo finito. Quindi ha giocato un ruolo importante.

Samara Joy

Hai prodotto questo lavoro con un’altra figura importante, Brian Lynch. Quanto è stato importante collaborare con lui?

Stavo cercando un co-produttore. Cercavo qualcuno che magari non avesse mai ascoltato la mia musica per dare una sorta di prospettiva nuova. Ma cercavo anche qualcuno che fosse un musicista attivo. Lui scrive per big band, ha un suo lavoro originale alle spalle per il quale ha vinto dei Grammy. Ha suonato con Art Blakey, con i Messengers, con Horace Silver, con Eddie Palmieri. Quindi ha moltissima esperienza nell’ascoltare gli ensemble, nell’ascoltare i fiati che suonano insieme, nell’ascoltare i diversi ritmi e nell’essere in grado di sottolineare quando qualcosa non va bene. Ma per questo progetto in particolare, cercavo solo qualcuno di cui potermi fidare. E mi sono fidata della sua esperienza e delle sue orecchie, ma anche di noi. Lui non si è posto tipo: “Oh, io sono il grande nome, quindi verrò qui e prenderò in mano il progetto”. Sapeva quanto fosse speciale e importante per noi. Sono molto contenta che l’abbia riconosciuto, che ci abbia permesso di prendere l’iniziativa, dandoci anche i suoi consigli. E anche se si trattava di una sola parola, di un consiglio, significava molto e cambiava tutto. Quindi, sì, era davvero il collaboratore perfetto per questo progetto.

Come abbiamo detto prima, in due anni hai vinto tre Grammy, i primi due a 22, 23 anni. Vorrei chiederti, vincerli ti ha influenzata? Ti ha dato più autostima? Ti ha fatto capire di poter lavorare sul tuo talento?

Sicuramente mi ha dato molta più attenzione di quanta ne avessi prima. E ho sentito che è diverso vincere un Grammy. Voglio dire, vincere un Grammy è di per sé un sogno che non avrei mai pensato potesse accadere a me. Ma essere sul grande palcoscenico e trovarsi dove ci sono tutte le celebrità e le pop star, vincere ed essere sotto quella luce è stato travolgente. Mi sono chiesta: “Ok, e adesso che faccio?. Devo cambiare la mia musica, inserirmi in un genere più mainstream?” Oppure, sai, fare tutte quelle cose di visibilità pubblica che la gente fa, i red carpet e tutto questo genere di cose. Ma poi ho pensato: “Sono contenta di aver dato un’occhiata a Hollywood, ma non è proprio la mia vita”. Come se non facessi questo per ottenere quello. Quindi, anche se c’era una certa profondità, mi sono sentita un po’ sotto pressione per cambiare in qualche modo. Mi sono resa conto che l’essere me stessa è ciò che mi ha portato lì, oltre ad avere un team incredibile di persone che credono in me. È questo che mi ha portato a quel punto. Quindi non cercherò di forzare nulla. Ho dovuto dire a me stessa: “Mi atterrò alla mia passione, al mio scopo, e tutto andrà al suo posto, come è già successo”.

Penso che anche avere un team intorno renda più facile il fatto di rimanere te stessa, perché ci sono persone con te che ti ricordano chi sei. Anche per quanto riguarda la musica, da dove venite e dove volete andare. Ad anticipare il disco hai pubblicato il singolo Autumn Nocturne e credo che sia la stagione perfetta per ascoltare un brano del genere. Poi è arrivato l’album. Come stai ora che il lavoroè finito, e come hai scoperto che l’album era pronto?

Questa è un’ottima domanda. Come mi sono sentita quando l’album è stato finalmente pronto? Molto sollevata. Mi sono sentita così, perché ci stavamo lavorando da febbraio. A febbraio ho iniziato a programmare le sessioni in studio. Quindi da febbraio a luglio è stato il periodo in cui abbiamo lavorato all’album. A marzo lo abbiamo registrato. Ad aprile ero in Europa, in tournée, ma mi occupavo ancora di post-produzione, editing e cose del genere. A maggio e giugno ho pensato: “Oh, cavolo, la scadenza! Pensavo che la scadenza fosse in questa data, ma in realtà è prima”. Quindi abbiamo dovuto accelerare i tempi e, sai, è stato un processo impegnativo. Ma sono contenta. Io, Brian Lynch e Dave Darlington ci siamo riuniti e abbiamo lavorato davvero bene, devo dargliene atto. Hanno lavorato duramente per assicurarsi che l’album fosse finito entro la scadenza prestabilita. Quindi sono sollevata e sono felice di dire che in un certo senso ho voluto giocare un ruolo più attivo in ogni aspetto della realizzazione di questo progetto. Dalla scelta del pittore che volevo dipingesse la copertina alla scelta dei fotografi per il servizio fotografico, dello studio, del produttore, di Brian e Dave. Volevo, in post-produzione, riascoltare i brani per capire quali mi piacevano e quali no. Quindi, sì, volevo partecipare a tutto. Sapevo esattamente quando l’album era finito, perché ero lì.

E l’hai deciso tu. Penso che sia molto importante se chiami il disco “Portrait”. Deve essere qualcosa che alla fine ti ritrae. L’ultima domanda è: cosa dobbiamo aspettarci ora che il disco è pronto? Avete intenzione di ricominciare ad andare in tour?

La cosa assurda è che abbiamo praticamente portato in tour l’album. Siamo pronti a partire in questo momento. E onestamente, voglio dire, ho avuto una pausa a luglio, ma di solito il tour è parte integrante del mio lavoro. Sono più un artista che si esibisce che un artista che registra. Sono stata in studio solo un paio di volte, ma sono sempre in tour. Quindi sono pronta. Sto ancora imparando a fare le valigie in modo più efficiente, ma a parte questo, sì, sono pronta. Sono pronta per il tour. Sono pronta a condividere questa musica con la gente, pronta per questa esperienza. Sono davvero orgogliosa di ciò che abbiamo creato. Sono contenta di essermi presa del tempo dopo i Grammy. E sono ancora più entusiasta di essere ancora accessibile alle persone e di non tirarmela tipo “oh, sono famosa, ora sono famosa. Non posso andare in tournée se non ottengo cento milioni di dollari”. No, alla fine sono una musicista. Quindi sono davvero felice di poter presentare questo ritratto di chi sono.

  • Autore articolo
    Matteo Villaci
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