La regola vuole che ogni buona serie tv possa riassumersi nel corso di un viaggio in ascensore: si chiama infatti in gergo elevator pitch l’idea, il concetto base di uno show, anche perché, secondo la leggenda, dovrebbe trattarsi di qualcosa in grado di impressionare produttori e vertici dei network immediatamente, in poche parole.
Ogni tanto, però, è giusto che ci sia un’eccezione, com’è il caso di Homecoming, nuova produzione originale Amazon Prime Video, la cui prima stagione è stata pubblicata sulla piattaforma il 2 novembre. Non è per nulla facile spiegare di cosa parli, Homecoming, ed è una scelta deliberata: c’è Julia Roberts (è la sua prima volta su piccolo schermo, ed è anche produttrice) che interpreta Heidi Bergman, una consulente impegnata nella gestione di una struttura per l’accoglienza e il reintegro in società di giovani reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq.
La struttura – che si chiama appunto Homecoming, “ritorno a casa” – è in mezzo alle paludi della Florida, ha un design particolarissimo a metà tra l’iper-moderno e il vintage, Heidi continua a ricevere telefonate intimidatorie da un certo Colin e il tutto appare immerso in un’atmosfera sottilmente sinistra.
E c’è poi un altro piano temporale, di qualche anno nel futuro: tempo dopo, Heidi fa la cameriera in una bettola vicino a un porto, e la sua esistenza è cupa e spenta, c’è qualcosa di sbagliato, di soffocante, di “sporco”, una sensazione sottolineata dal fatto che, in questa timeline, lo schermo è stretto in un’inquadratura quadrata, invece che nel solito 4:3 o nell’ancora più arioso 16:9. Cos’è successo nel frattempo?
Homecoming è la nuova creazione di Sam Esmail, l’autore di Mr. Robot, che ribadisce così il proprio talento, soprattutto estetico: la serie è tratta da un omonimo podcast, di grande successo negli Stati Uniti, un podcast narrativo, l’equivalente di un radiodramma, tutto costruito attraverso finte registrazioni di sedute d’analisi, documenti recuperati e letti, telefonate, messaggi, etc.
Se la sceneggiatura deriva in gran parte da lì – ed è adattata per la tv dagli stessi autori del podcast, Eli Horowitz e Micah Bloomberg –, Sam Esmail lavora qui sull’aspetto visivo, aggiungendo un livello completamente nuovo alla storia e, di fatto, trasformandola in qualcos’altro: cioè in un thriller denso e tesissimo, degno erede sia dei noir anni 50, sia, soprattutto, della New Hollywood anni 70. Da Alfred Hitchcock a Alan J. Pakula, da La conversazione di Francis Ford Coppola a I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, passando da Brian De Palma e perfino Stanley Kubrick, ma non attraverso uno sterile fuoco di fila di citazioni (come spesso accade nel cinema e nella tv postmoderni) bensì con un remix di fonti e ispirazioni che omaggia i maestri e intanto distilla un risultato differente.
Un’operazione evidente nello sfacciato ed efficacissimo uso della musica, tutta composta da brani di colonne sonore esistenti, da Pino Donaggio a Bernard Herrmann a Ennio Morricone: alcuni temi sono anche molto riconoscibili, ma sono sempre usati per aumentare l’efficacia del racconto, non per soffocarlo con un ingombrante rimando cinefilo.
E infine, come i migliori thriller cospirazionisti hanno sempre fatto, Homecoming restituisce alla sua paranoia qualcosa che oggi ci manca molto, cioè una forma di pensiero critico: non iperbolici deliri complottisti, ma una riflessione sul sistema, la macchina che ci schiaccia, tutti quanti, e che quindi pretende anche da noi un’ineludibile tassa di responsabilità. Tra le migliori novità dell’autunno televisivo: non perdetela.