“La Francia è in guerra” e l’Europa ancora non lo sa. Non sa come rispondere, almeno finora, alla richiesta di aiuto del presidente francese Hollande in base all’articolo 42.7 del trattato dell’Unione. “Ci vuole una fermezza della ragione, non iniziative che sanno di vetero-colonialismo“, ha detto oggi a Memos lo storico Adriano Prosperi.
La prima impressione del professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa alla notizia delle stragi di venerdì scorso a Parigi è stata scioccante. «Mi è sembrata una discesa di un gradino molto alto nella cupezza di questi tempi, nello smarrimento per tutti. Una sensazione di freddo e di cupezza spaventosa», racconta. «E’ stata la conferma che non solo non si è usciti dalla sindrome che avevamo creduto di chiudere con la liberazione di Auschwitz, ma che si entra in un percorso ancora più terrificante e preoccupante. Un percorso in cui si incrociano colpe storiche della politica colonialistica europea, colpe recenti della politica fatta dai paesi occidentali nel vicino oriente e qualcosa di più antico e di più selvaggio».
Quella che lei ci racconta, professor Prosperi, è una eclissi della ragione. Perché? «Ci sono molte cause recenti e anche premesse remote, ma certamente ciò che ci sta più a cuore è il presente e il futuro. Verso dove stiamo andando? Assistiamo ad una situazione in cui noi, come cittadini europei, siamo impotenti per la mancanza di una politica estera del paese “Europa”. Ciò mi preoccupa. Questo atto ha eletto una capitale, Parigi; l’ha individuata anche per ragioni simboliche: Parigi è la capitale della libertà. Questo atto, invece, non ha individuato né Bruxelles né Berlino. La gigantesca potenza tedesca è un nano politico e la ancor di più gigantesca potenza data dall’insieme dei paesi dell’Europea non esiste politicamente. Non abbiamo un governo eletto dai cittadini che decida per tutti noi sulla base di ciò i cittadini vogliono. Siamo dunque davanti ad un’impotenza agghiacciante. Dobbiamo affidarci solo alle ipotesi di una saldatura politica tra Stati Uniti e Russia, finalmente dopo una lunga guerra fredda. Dobbiamo sperare – prosegue lo storico – che la mossa di Putin trovi riscontro in un consenso, in una cooperazione sostanziale da parte degli Stati Uniti che con la sua politica finora non ha voluto rischiare propri soldati gettando soltanto bombe. Ma noi, cittadini dell’Unione Europea, a chi possiamo mandare le nostre richieste? Non certo ai capi dei nostri governi che parlano, ma non agiscono. E se agiscono, lo fanno come Hollande con iniziative che sanno di vetero-colonialismo. Ci vuole, invece, una fermezza della ragione. Una politica francese, a prescindere dall’Onu e dalla Ue, è un sogno di potenza fuori tempo. I valori che la Francia rappresenta sono quelli straordinari della tradizione illuministica, della ragione, della libertà degli individui.
Non è questo grido di guerra che ci può tranquillizzare perché corrisponde ad una partenza anticipata, naturalmente legittimata da un’offesa ricevuta, di chi sa che la politica estera non può essere più la politica di uno stato nazionale, non può che essere una politica concertata con le altre realtà politiche del sistema-mondo. Non si è mai trovata la via di tradurre le nostre diverse, distinte, debolezze nazionali in una forza collettiva». Fin qui lo storico Adriano Prosperi.
Diversa invece la prospettiva dell’analista strategico Alessandro Politi, ospite della seconda parte di Memos. C’è una ragione particolare nella tempistica della strage di Parigi? «Una delle ipotesi che è andata per la maggiore – risponde Politi – è quella del tentativo di impedire la visita del presidente iraniano Rohani in Francia e in Italia. E’ possibile, ma allo stesso tempo direi che è chiedere troppo ad un attentato terroristico. Un attentato terroristico crea delle vittime non per terrorizzare la popolazione ma per influenzare le elite. Anche se il messaggio di rivendicazione dell’Isis fosse finto, il collegamento ovvio è con l’intervento francese in Siria. Quindi l’attentato di Parigi sarebbe una ritorsione».
Politi mette in evidenza anche «tutta una serie di giochi più sottili, che però passano attraverso il finanziamento di questi gruppi, e che riguardano invece la mobilità dello scacchiere del Golfo e del Levante. Una mobilità misurabile ad esempio con il fatto che l’Iran sta emergendo come nuova potenza. Una potenza accettabile nel salotto buono della politica, ma non necessariamente dai partner del Golfo». Lei parla di mobilità nello scacchiere, ma si capisce chi è in guerra con chi in quell’area?«Si tratta di una guerra che come tutte quelle complesse ha molte facce e strati – sostiene Politi. Ad un certo livello si collabora, o si finge di collaborare; ad un altro ci si tira calci sotto il tavolo per interessi estremamente concreti. Ad esempio: tutti i paesi del GCC (Gulf Cooperation Council) sono nell’alleanza contro l’Isis, o meglio contro Dawla (Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, ndr), cioè lo Stato Islamico. Però, guarda caso, ci sono canali di finanziamento che non vengono efficacemente contrastati anche se sono privati. Non dimentichiamoci che quando i britannici erano impegnati in Irlanda del Nord contro l’Ira arrivavano soldi ai terroristi irlandesi da più o meno anonimi donatori americani e il governo di Washington non fece assolutamente nulla per decenni.
Quindi non sono cose inedite. Anche tra le potenze che sono fuori dell’area è chiaro che ci sono interessi convergenti, qualche volta “convergenze parallele” tra Stati Uniti e Russia, e interessi divergenti. La Turchia è un caso classico di ambivalenza. Russia e Stati Uniti collaborano più o meno di buon grado o controvoglia dai tempi del disarmo chimico di Bashar El-Assad. Quindi ciò che vediamo è un chiaro interesse statunitense a cercare di governare il cambiamento dell’area senza restarne coinvolto, e un altrettanto chiaro interesse russo a non venire espulso in conseguenza di una possibile caduta di Assad. Il problema politico è tutto qui: rassicurare Iran e Russia che i loro interessi legittimi, o comunque comprensibili, verranno tenuti in conto ma che forse la famiglia Assad non è più la miglior garanzia per questi interessi. Facile a dirsi, molto più complicato a negoziarsi», conclude Alessandro Politi.
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